Famiglia

Romania-Milano, obiettivo scuola

Il racconto di una delle donne sgomberate dal campo nomadi

di Sara De Carli

L a 77 va da Chiaravalle fin dentro il cuore di Milano. Dalla cintura sud della città, un mix di campi e sterpaglie, arriva alla zona bene: Porta Romana, via Commenda, via degli Orti. La quinta fermata è in via San Dionigi. Nulla di noto, qui, se non il campo rom appena sgomberato. Le porte si chiudono e una signora non perde l?occasione di commentare: «Meno male, era ora». A sorriderle di un sorriso imbarazzato è una donna abbronzata, con gli occhi chiari e i capelli legati in una coda di cavallo. Indossa un abito a fiori, che non è né trendy né vintage né etnico: normale. Una donna normale, con l?aria casalinga di chi è uscita di corsa per comprare un litro di latte, che prima me lo sono scordato. Ironia della sorte, lei è una di quelle che nel campo rom ci viveva.

Danila, 29 anni
Danila, chiamiamola così, ha 29 anni. È esattamente la mia età. Lo butto lì per rompere il ghiaccio, ma è vero. «Ma io sembro più vecchia», dice armata di sgrassatore e straccio, mentre si precipita a passare la sedia di plastica – già pulita – su cui mi sto per sedere. «Ma tu hai fatto due figli», le dico. «è che qui nella baracchina tutto è più difficile». Al campo di via San Dionigi, nella baracchina, come la chiama lei, Danila ci ha vissuto per tre anni e mezzo. Insieme a lei, il marito e due figlie, che oggi fanno la prima media e la quarta elementare. Capelli lunghi per entrambe, minigonna per la più grande, la piccola si ingozza con una brioche e dice che da grande farà la cuoca. Ama Tom e Jerry, «ma di più Jerry, perché è più furbo». Già che c?è, completa le presentazioni: «Mia sorella invece vuole fare la dottoressa dei bambini», precisa con aria soddisfatta, mentre l?altra la incenerisce con lo sguardo.
«Siamo venuti via dalla Romania per loro, per la scuola», spiega Danila. Alla faccia della vulgata che vuole che i rom proprio non lo capiscano che i bambini vanno mandati a scuola. «In Romania devi pagare tutto, dai libri alla divisa. Noi non avevamo abbastanza soldi, ma io voglio che le mie figlie fanno il liceo. Allora siamo venuti in Italia: a Milano perché qui c?era già un cugino di mio marito. Poi noi due torniamo a casa, quando le bambine hanno finito la scuola e si sono fatte la loro vita qua».

Come una guerra
È partito lui per primo, cinque anni fa. Lavoretti in nero, i primi contratti a tempo determinato, poi finalmente un contratto a tempo indeterminato nello smaltimento dell?amianto. Danila arriva con le bambine un anno e mezzo dopo, e ripercorre la stessa trafila. Da due anni lavora in una cooperativa di pulizie: «Gli uffici aprono alle 9, e per quell?ora tutto deve essere a posto. Mi alzo alle 4 e mezza del mattino e spesso mi avvio a piedi», dice lei. Al lavoro nessuno sa che lei viveva nel campo rom: «Mi vergogno. E ho paura che non mi fanno più lavorare. Sto negli uffici, gli italiani pensano che i rom rubano, mi cacciano via». Sillogismo perfetto, anche se Danila in Romania ha fatto solo l?ottava classe.
Lo sgombero del 5 settembre era nell?aria (carta canta, l?Asl aveva fatto più esposti) e suor Ancilla e suor Gloria, che vivono a due passi da qua e dal 2004 seguono le famiglie ?delle baracchine?, avevano cercato di preparare la gente. «Noi però eravamo tornati dalla Romania solo la sera prima, non sapevamo niente. Al mattino è arrivata suor Ancilla, ci ha detto che erano arrivati. Siamo usciti e c?erano tutti i poliziotti con gli scudi, come una guerra. Abbiamo preso un po? di vestiti e siamo venuti via. Ma nessuno ha gridato, abbiamo fatto come dicevano loro».

Fastidio a chi?
Danila e la sua famiglia avevano già in mente di cercare un alloggio: hanno due stipendi, possono farcela. Pensavano solo di aspettare qualche mese, per mettere da parte ancora un po? di soldi. «Io credo che tanta gente ci vuole bene e che il Comune ci aiuta. Ci sono cinque o sei famiglie come noi, che lavorano: per noi è più facile, però io sono preoccupata per tutti gli altri. Non va bene se si trova una soluzione solo per noi e per gli altri no».
Un po? è arrabbiata, Danila. Perché il campo c?era da nove anni e non dava fastidio a nessuno. I bambini andavano tutti a scuola: l?anno scorso tre di loro sono usciti dalle medie con l?ottimo. Moltissimi uomini lavoravano nel riciclaggio dei bancali, nelle fabbrichette qua attorno. In primavera poi l?associazione aveva addirittura ottenuto che il campo avesse l?allacciamento alla fogna. Si sapeva sempre chi c?era qua, anche se visto che il campo non era autorizzato, non c?era nessun patto di legalità ufficiale. È quella che don Virginio Colmegna ha chiamato una «regolarità fatta di relazioni e condivisione». «A noi ci hanno mandato via», dice Danila, «ma adesso gli albanesi stanno già ricostruendo le baracche. Io dico che la sparatoria di inizio agosto l?hanno fatta loro, per prendersi il terreno».

«Mi ha detto mio cuggino»
E alla fine, quando il fotografo si alza, si lascia andare a una confidenza tra donne. «Se vai in ospedale, qui in Italia, ci vogliono 300 euro per abortire», bisbiglia. «E anche per partorire, tu vai, poi torni a casa con il bambino e ti mandano un foglio con scritto che devi pagare 800 euro». Ma no, Danila, se vai in un ospedale pubblico è tutto gratis. Si stringe nelle spalle: «Io non so, me lo ha detto una mia amica».
Fa sorridere il presunto rigore di questa logica ferrea del passaparola. Ma a pensarci bene è la stessa che usiamo noi, ribaltata. Perché incontrare un rom e farci una chiacchierata ad altezza di sguardo è esperienza non propriamente diffusa. E così il «mi ha detto mio cuggino» che cantava Elio, è assurto a paradigma epistemologico. E fa impressione sentire don Colmegna che ricorda il can can fatto a dicembre attorno ai rom di Opera, le ronde, il picchetto, l?incendio del campo provvisorio. Dice che poi tutte le famiglie hanno trovato casa. Basta non dire che sono rom: nessuno si accorge di nulla e la convivenza fila via liscia come l?olio.
Premonitore, Elio: «Mio cuggino ?o malamente/ è un prodotto della mente./ Ma non era autorizzato, per cui l?hanno imprigionato».


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