Cultura

Comunità inquiete. La droga di massa le ha messe fuori gioco

L'intervento di Riccardo Gatti

di Redazione

A mettere in fuorigioco le comunità terapeutiche, secondo Riccardo Gatti, direttore del dipartimento delle dipendenze della Asl città di Milano, è innazitutto una questione culturale: «Le sostanze a prescidere dalla loro liceità o meno, ormai fanno parte della cultura di massa e non più di sottoculture minoritarie».
Ne consegue che «le strutture che prendevano in cura il tossico, lo ripulivano e dopo tot anni lo reinserivano in società, oggi rimangono spiazzate perché è proprio nella vita quotidiana e ?normale? che si viene in contatto con le droghe». «Educare a cosa e in che modo? A questo interrogativo in qualche modo bisognerà pur rispondere», insiste Gatti. L?idea di un luogo che sia al contempo «sanatorio e salvatorio», non è dunque più praticabile. «Chi usa droga spesso non si percepisce come tossicodipendente e forse non lo è più», arriva a sostenere lo psicoterapeuta milanese.

«Tanto è vero che sono persone molto spesso ben inserite in società». Insomma nell?era di internet, del telefonino e dei voli low coast le comunità terapeutiche ancorate agli anni 70 sono destinate all?estinzione. «Il mondo è cambiato, la comunità è il mezzo, non il fine, troppo spesso ce lo si dimentica».

Tirare a campare non è più possibile: «I tassi di drop out non sono mai stati così alti, oggi i 2/3 dei nuovi utenti delle comunità abbandonano i programmi dopo pochi mesi». In alcuni casi c?è anche un pizzico di rassegnazione di troppo. «Lo si vede dall?esiguità delle rette: la comunità loro malgrado hanno di fatto accettato la logica del basso profilo». E invece «bisognerebbe pretendere di più, essere in grado di offrire un servizio più mirato e di qualità superiore».

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