Welfare

Il dolore delle vittime nel libro di Mario Calabresi

Il libro di Mario Calabresi, il figlio del commissario ucciso nel 1972, è un libro da far leggere alle persone che nella loro vita hanno fatto pesantemente del male agli altri

di Ornella Favero

Il libro di Mario Calabresi, il figlio del commissario ucciso nel 1972, Spingendo la notte più in là, è un libro da far leggere alle persone che nella loro vita hanno fatto pesantemente del male agli altri, e sono finite in carcere, ma anche a chi sta fuori, vive in libertà, ha una vita piena, e però spesso ugualmente si alimenta della cultura dell?insofferenza verso ?l?altro?, e del desiderio di vendetta. A consigliarlo è un lettore particolare, un detenuto albanese, Elton Kalica, dal carcere di Padova: «Io credo che quello che il libro di Mario Calabresi mi ha fatto percepire in modo chiaro è che la violenza in sé è spietata, e che porta morte, ma anche distruzione, perché distrugge comunque la vita di tutti i famigliari, sia di chi ha ucciso sia di chi è stato vittima. Allora, secondo me, il messaggio che Calabresi lancia è il ripudio della violenza. Io mi guardo intorno, qui in carcere, e vedo persone rovinate, cariche di anni di galera; vedo le loro famiglie distrutte che percorrono centinaia di chilometri per andare a trovare il loro caro da un carcere all?altro. E tutto questo perché tanta gente, chi per soldi, chi per un?idea, chi per soddisfare il proprio piacere, ha accettato, per raggiungere il suo scopo, di usare la violenza. Allora si deve leggere questo libro anche per conoscere in ogni più piccolo dettaglio il dolore delle vittime».

Qui Brescia
Il sequestro nel nostro Paese, a causa delle leggi cosiddette emergenziali, è punito con pene altissime, più dell?omicidio. Eppure, per dimostrare che non si deve mai usare una categoria di reati per giudicare le persone, nel carcere di Brescia è entrato a incontrare i detenuti Giuseppe Soffiantini, l?industriale bresciano sequestrato nel 1997. È stata, la sua, una testimonianza importante e coraggiosa, perché ha ribadito che continuare a provare rancore e desiderio di vendetta «impedisce il superamento del dolore» (il racconto dell?incontro di Soffiantini con i detenuti si può trovare in Zona 508, il giornale delle carceri bresciane).

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