Famiglia

Legame. Intervista a Eugenia Scabini

Per la mentalità diffusa ha un’accezione negativa. Perché negherebbe l’individualismo. Ma cancellando l’esperienza del legame, si cancella alla fine proprio...

di Sara De Carli

Vita: «Per favore addomesticami», diceva il Piccolo principe, pieno di desiderio, dopo aver scoperto che addomesticare vuol dire creare dei legami e che avere legami era la risposta al suo cercare amici. Poi invece sappiamo tutti il fastidio dei legami intesi come vincoli e limitazioni. Meno chiaro è perché una cultura che nel privato sottolinea solo l?aspetto negativo del legame, poi predica in società l?elogio delle relazioni, delle strategie cooperative, del capitale sociale. Non c?è una contraddizione?
Eugenia Scabini: La parola relazione sembra più accettabile rispetto a legame, proprio per via dell?aspetto del vincolo, ma in fondo cambia poco: anche re-lato e re-fero dicono di un ri-portare qualcosa a qualcuno. E se questo qualcuno è importante, ti scontri comunque con il legame come vincolo, come patto, come responsabilità dell?uno verso l?altro, coniuge o figlio che sia. Io credo che il tema delle strategie cooperative sia una teoria a cui bisogna dare linfa, ripensando il concetto di libertà alla luce della logica relazionale. La cultura odierna continua ad essere contro la logica dei legami: se l?individuo è il centro di tutto, se concepisce lo scambio con l?altro solo come possibilità che il soggetto ha di scegliere, io posso anche dire che il legame per quel soggetto è importante, ma poi finisce che il legame è solo qualcosa in cui posso entrare e uscire a mio piacimento, esercitando la libertà come possibilità di recidere impunemente i legami, senza pagare il conto. Questa è una logica distruttiva e violenta e il soggetto in teoria è dentro una rete di legami ma in realtà è assolutamente solitario, perché la sua responsabilità è nulla. Il legame invece vuol dire che l?altro entra nella tua vita e ci resta: la condiziona, tu non puoi più prescindere da lui. è questa la logica cooperativa, dove la libertà include la responsabilità. La cultura della libertà come assenza di vincoli non favorisce la cultura cooperativa, perché nella dinamica cooperativa c?è sempre una dose di rischio non calcolabile. Il disastro della cultura individualista è che non consente il rischio del lanciarsi, la scommessa sull?altro: appena i conti non tornano ti impone la soluzione del lasciare il campo e ricominciare da un?altra parte.

Vita: C?è un modo per recuperare psicologicamente la bellezza del legame? Per non farne solo una triste questione di etica del dovere?
Scabini: Se siamo sinceri dobbiamo ammettere che il legame ha anche un fascino, tant?è che tutte le inchieste sui giovani dicono che nel futuro si immaginano in coppia e con dei figli: l?alternativa d?altronde è la solitudine. Bisognerebbe mettere eros nel legame: il legame stesso è un oggetto amoroso, si ama non solo l?altro ma anche il legame con lui, perché il legame dà direzione, orientamento al futuro, che è ciò che fa crescere la relazione. Il legame ha due componenti: una affettiva e una etica nel senso dell?ethos, della ratio che guida i comportamenti. Il prototipo della componente affettiva è la fiducia: tu esci dai legami positivi con una quota in più di fiducia verso l?altro. E anche verso il legame. Chi lavora con le coppie che si separano ha un compito molto delicato: far capire che quando il singolo legame fallisce c?è ancora qualcosa da salvare, che è la fiducia nel legame. La vera tragedia è quando dalla singola esperienza negativa si trae la conclusione che dal legame bisogna sempre scappare, difendersi. Allora le persone non incontreranno più nessuno con cui ricostruire un legame affidabile, e non si apriranno più alla socialità.

Vita: Non è pericoloso mitizzare troppo il legame famigliare come modello del legame sociale? Voglio dire: è un modello che tiene perché il più forte non si tira fuori dal legame, per senso di responsabilità. Ma a livello sociale, col crescere del divario tra forti e deboli, poveri e ricchi, è sempre più probabile che il più forte si chiami fuori.
Scabini: Il pericolo c?è da sempre, però non si tratta solo del ricco e del povero. Il problema decisivo oggi è quello dell?equità tra le generazioni, non solo quello di una equità distributiva orizzontale. Lo vediamo con le pensioni, l?ambiente, l?accesso al mercato del lavoro: il debole è la generazione futura. La generazione di oggi può continuare a ragionare secondo una logica corporativista: vincerà la battaglia, ma poi perdiamo tutti la guerra, perché la società finirà. Credo però che non lo abbiamo ancora capito in modo compiuto. Dobbiamo usare il codice cooperativo anche in verticale, pensando il bene comune come inclusivo della generazione futura. Se il problema è generazionale, bisogna risolverlo pensando per generazioni, mettendo al centro le relazioni fra le generazioni invece che il diritto delle singole categorie di persone. E riconoscere la famiglia come soggetto sociale significa indubitabilmente spostare il centro del discorso sulle generazioni.

Vita: Torniamo alla questione dei legami nella loro dimensione sociale…
Scabini: Tutti oggi parlano di capitale sociale, fiducia sociale, strategie cooperative? ma dove si imparano queste cose? La capacità di creare capitale sociale non è altro che la capacità di creare legami buoni: è una cosa che non è innata, la si impara, è trasmessa. E se si allentano i legami tra le generazioni, si indebolisce anche la capacità di creare capitale sociale. Il vero punto è che le generazioni sociali sono le generazioni che genera la famiglia, non qualcosa di altro, di astratto: i giovani che ha la società sono i figli, non altri. Gli adulti che ha la società sono padri e madri. È in famiglia che impari cosa vuol dire essere legati a una persona, sentire di appartenere a qualcuno e viverlo in modo positivo, non come un limite da cui chiamarsi fuori appena possibile, nella dinamica della gratitudine e del debito, della responsabilità, del rispetto, della fiducia? Certo che nella società i legami hanno caratteristiche diverse, però si tratta sempre della stessa dinamica: essere appartenenti, essere liberi, essere responsabili. Se sei nato dentro legami inaffidabili, sarai più sospettoso verso gli altri, tenderai ad essere una risorsa meno attiva nel sociale. E la società va avanti solo se la generazione precedente si sente responsabile di quella successiva: basti pensare al discorso delle risorse, all?ecologia e all?ambiente, alle pensioni, all?ingresso nel mercato del lavoro… Allora non possiamo non riconoscere di essere di fronte a un compito urgente: fare apprendere la dinamica dei legami, tornare a insegnare a costruire legami sani, appartenenze sane, responsabilità sane.

Vita: In un suo editoriale ha scritto che una società senza famiglia sarebbe «altamente impersonale, sottilmente violenta, instabile perché impossibilitata a istituzionalizzare e rendere solidi i propri legami». Non è un po? esagerato?
Scabini: Ma la famiglia non è solo un laboratorio di legami, è il legame primario. Uno non impara che cos?è il legame tra gli uomini se non attraverso la famiglia. Questo non significa in maniera deterministica che chi ha legami famigliari faticosi non avrà mai legami sociali positivi, però è assodato che ad alti livelli disgregativi dei legami famigliari corrisponde una crescita di problemi sociali ed economici che la società non riesce a risolvere, perché le strutture che mette in piedi per aggiustare i problemi risultano essere solo ortopediche. Abbiamo provato anche noi a delegare la cura a istituzioni pubbliche di welfare, togliendola dal contesto famigliare delle relazioni tra le generazioni, mutandola in assistenza, ma la presunta efficienza di un sistema di socializzazione e assistenza che prescinda dalla famiglia ha mostrato la sua problematicità. Tant?è che oggi per indicare le forme ideali di welfare si ricorre sempre più spesso all?aggettivo ?familiare?: le case-famiglia, l?assistenza domiciliare per i malati gravi e gli anziani, i nidi-famiglia, le badanti.

Vita: Non va bene?
Scabini: Certamente c?è un?intenzione positiva. Il problema però è che questo modello rischia di diventare l?unica soluzione prevista. Mentre invece la soluzione vera si avrebbe mettendo al centro la famiglia, non il suo aggettivo.

Vita: Lei si occupa di famiglia da anni. In tutto il parlare di famiglia che si è fatto di recente, ha visto qualcosa di nuovo?
Scabini: Credo che le famiglie per la prima volta abbiano fatto l?esperienza di essere veramente un soggetto sociale. Lo diciamo da sempre che la famiglia non è solo un fatto privato, ma una consistente realtà sociale: per la prima volta però il Family day ha dato a chi c?era questa esperienza concreta, diretta. È un esito rivolto all?interno, poco visibile, però è importante. Più importante degli esiti esterni, così tanto sottolineati, delle contrapposizioni rispetto ad altre scelte di vita. Finora la famiglia è stata vista in senso passivo: nelle politiche sociali il soggetto-famiglia è stato il grande assente, al massimo era presente l?oggetto-famiglia, e anche in ambito cattolico spesso si è puntato sulle relazioni all?interno della famiglia senza far emergere a sufficienza la sua dimensione sociale. Invece credo che da oggi si potrà finalmente parlare della famiglia come di una questione di cittadinanza. Le varie proposte troveranno un terreno più fertile, ci sarà una maggiore capacità di iniziativa da parte delle famiglie stesse.

Vita: Vuol dire che la famiglia oggi ha più forza per fare rivendicazioni a suo favore?
Scabini: Prima di fare rivendicazioni, vedrei bene un?azione di riconoscimento. Qui non stiamo parlando di una visibilità sociale ideologica o contrapposta alla dimensione privata: il fatto è che la dimensione sociale è la vita stessa delle famiglie. La famiglia non ha una vita intima, privata, affettiva e poi, accanto, quello che riguarda le bollette, il fisco, l?educazione dei figli, la scuola: non si può essere così ingenui da pensare che la tua vita intima di coppia e di famiglia, quello che tu cerchi di trasmettere ai figli, non abbia nulla a che fare con la dimensione sociale. Ecco, si è rafforzata questa consapevolezza, la dimensione prosociale della famiglia.

Vita: Lei ha studiato anche la resistenza da una generazione all?altra di quel particolare legame sociale che è l?impegno nel volontariato. Cosa ha visto?
Scabini: La famiglia oggi fa fatica a traghettare i giovani in società: prevale la logica protettiva. Abbiamo studiato le famiglie che fanno volontariato, presupponendo che lì ci fosse una visione meno spaventata, più fiduciosa verso l?esterno e verso il sociale. Quello che ci interessava era capire non tanto la trasmissione del fare volontariato, ma degli atteggiamenti prosociali. Quando i genitori hanno questi atteggiamenti prosociali, che si esprimono nel volontariato ma anche in forme più leggere di impegno, questo si trasmette ai figli. Che sono più protagonisti e più attivi dentro la comunità.

Eugenia Scabini milanese, è preside della Facoltà di Psicologia dell?Università Cattolica di Milano, dove insegna anche Psicologia sociale della Famiglia. è direttore del Centro Studi e Ricerche sulla famiglia della stessa Università. Tra i suoi libri, Rigenerare i legami: la mediazione nelle relazioni familiari e comunitarie (Vita e Pensiero) e Giovani volontari (Giunti 2003).


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