Formazione

Quel silenzioso popolo degli uomini torturati

Sono circa 4mila quelli che ogni anno sbarcano in Europa. Per loro c’è un progetto di aiuto, il progetto ViTo...

di Daniele Biella

Fuga dalla tortura. Dei 14mila rifugiati che ogni anno chiedono asilo ai governi d?Europa, per almeno 4mila persecuzione fa rima con tortura. «Siamo al 30%, ovvero uno ogni tre arriva da noi dopo essere sopravvissuto a sevizie: un dato che sorprende anche gli operatori», dice Fiorella Rathaus, sociologa e coordinatrice del settore integrazione del Cir, il Consiglio italiano rifugiati. Il 26 giugno si celebra il ventennale dell?entrata in vigore della Convenzione Onu contro la tortura, un passo importante ma finora non risolutivo.

«Fisica o psicologica, la tortura è sempre più difficile da riconoscere», dice la sociologa, «perché i metodi sono più sofisticati e mirati alla distruzione dell?identità». Al Cir, attraverso il progetto ViTo (che sta per ?vittime di tortura?) di cui Fiorella Rathaus è la responsabile, è dal 1996 che si lavora per recuperare i rifugiati vittime di soprusi. «In undici anni abbiamo preso in carico 1.300 persone, assistendole prima dal punto di vista medico e psicologico, poi legale e sociale», spiega la Rathaus. «Per molti di loro il trauma subito è rimasto sotto forma di perdita di concentrazione e memoria, pensieri intrusivi e paure di ogni tipo».

La rieducazione comincia dalla sfera affettiva, «con laboratori teatrali, artistici, in cui l?obiettivo è recuperare la relazione con l?altro», per poi proseguire con il reinserimento lavorativo. Le vittime di tortura che arrivano al Cir sono molto giovani, l?età media è 28 anni, il 75% è maschio, «che è più forte fisicamente e riesce meglio a scappare». Almeno uno su due arriva dall?Africa subsahariana, gli altri soprattutto da Kurdistan (turco e iracheno), Afghanistan e Colombia.

«Quello che accomuna tutti è l?avere lo stesso aguzzino, il proprio Stato», spiega la Rathaus, «che opera in modo diretto o tramite intermediari». Il luogo di tortura per antonomasia è il carcere: «è nelle celle dei grandi penitenziari o nelle stanze di detenzione della polizia che si consumano i delitti, laddove la tutela è inesistente».

E quasi sempre univoco è anche l?obiettivo dei persecutori: «La tortura viene usata per ridurre al silenzio chi ha visto qualcosa che non doveva vedere», aggiunge la sociologa. Scappare diventa allora un atto tanto disperato quanto necessario. «Ci riescono i più fortunati, quelli che hanno qualcuno che li aiuta». A volte capita che la persona in fuga riesca a portarsi dietro uno o più figli, quelli che al Cir chiamano «vittime secondarie, ovvero che non hanno subito tortura diretta ma assorbono quella del genitore in modo altrettanto traumatico», spiega Fiorella Rathaus, «per loro l?unico modo di ricostruire i rapporti è una lenta terapia familiare, che fino ad oggi abbiamo portato avanti con il progetto ViTo».

Il cui futuro, però, è a rischio. In gran parte finanziato dall?Unione Europea come altre iniziative omologhe in Europa, il proseguimento di ViTo dipende dalle nuove politiche di sussidiarietà della ?Fortezza Europa?: «Nei piani 2007-2010 della Ue c?è il blocco dei fondi per il supporto alle vittime di tortura, la cui gestione viene lasciata alle singole nazioni», dice la sociologa del Cir. «A prima vista tutto bene», conclude, «ma nella realtà di oggi questo passaggio non è pensabile, gli Stati non sono affatto pronti». Attualmente il progetto ViTo ha in carico 325 nuclei familiari di richiedenti asilo e rifugiati sopravvissuti a tortura.

Per informazioni:www.cir-onlus.org/progettovito.htm

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