Cultura

Darfur: Coopi, “un inferno umanitario”

Uberto Pedeferri, operatore Coopi, ripercorre brevemente gli interventi dell'ong italiana in Darfur dal 2004 a oggi

di Redazione

Nel cercare di dare un’idea di quale sia la situazione degli aiuti umanitari in Darfur oggi, non posso fare a meno di partire dall’esperienza di COOPI. Ovvero dalla visione di una ONG che lavora sul campo, legata soprattutto alla realtà specifica delle aree in cui interviene, realtà che per quanto riguarda il Darfur spesso varia da zona a zona.

Quello che posso raccontare quindi non può che partire da qui o meglio da quelle zone dello Stato del Nord Darfur, in cui fin dal 2004 stiamo lavorando: zone rurali remote, desertiche e martoriate dalla guerra.

Anzitutto occorre chiarire che la scelta dell’area geografica d’intervento fa riferimento a una strategia ben definita: si è trattato in sostanza di dover scegliere se intervenire a favore delle popolazioni rifugiate nei campi profughi, od offrire il nostro sostegno a quelle popolazioni colpite ugualmente dal conflitto, ma che non hanno potuto o non hanno voluto lasciare i propri villaggi.
Dopo aver realizzato due progetti in Darfur nei campi profughi di Abu Shouk e Zam Zam, nel distretto di El Fasher, la nostra scelta è stata quella di privilegiare il secondo tipo d’intervento, a favore di quelle popolazioni che, non essendo riuscite a trovare rifugio nei campi profughi della regione, con grandi difficoltà riescono oggi a essere raggiunte dagli aiuti umanitari. L’UNICEF denuncia che 1,2 milioni di bambini colpiti dalla guerra in Darfur risultano tagliati fuori da ogni assistenza, poichè isolati in aree rurali controllate dal governo sudanese o dai ribelli, ma egualmente inaccessibili alle agenzie umanitarie.

Queste popolazioni, indipendentemente dal ceppo etnico a cui appartengono, sono in genere semi-nomadi che vivono in deboli sistemi agro-pastorali tradizionali, e che non godono di nessun supporto tecnico da parte del Governo, soprattutto se si trovano in territori controllati dalle forze ribelli.

Com’è facile immaginare purtroppo, tali sistemi sono stati messi a dura prova dai combattimenti e gli operatori di COOPI, intervenendo in queste zone, sono stati testimoni diretti della devastazione che il passaggio della guerra ha comportato: villaggi distrutti, bestiame massacrato, raccolti bruciati, pozzi e punti d’acqua gravemente danneggiati. Queste razzie sono spesso dovute all’azione di milizie “arabe”, i tristemente famosi “Janjaweed” che operano in concertazione con le truppe del governo sudanese – come riportato nel recente rapporto della missione speciale sui diritti umani in Darfur – perseguendo una strategia assimilabile a una sorta di pulizia etnica. Va anche detto che quanto a devastazione, le truppe dei ribelli spesso e volentieri non son state da meno.

La risposta all’emergenza nel Nord Darfur ? che, come nel resto del Darfur, avviene in un contesto di gravi violazioni dei diritti dell’Uomo – è data in queste aree oltre che dal fornire immediatamente aiuti alimentari, a cui ha pensato in larga misura il Word Food Programme, anche dal garantire quei pochi mezzi di sussistenza di cui le popolazioni hanno bisogno, soprattutto per prevenire una crisi alimentare ancor più seria. Secondo il rapporto delle agenzie ONU di fine 2006, il 70% della popolazione colpita dalla guerra rimane a rischio d’insicurezza alimentare proprio perchè i sistemi produttivi agro-pastorali sono stati seriamente danneggiati.

Si tratta in sostanza di distribuire semi e strumenti per l’agricoltura, di riabilitare pozzi, punti d’acqua e cisterne, e di prevenire le malattie del bestiame attraverso sia campagne massive di vaccinazioni, sia rafforzando le capacità dei paraveterinari locali.

In tutto il 2006, dopo oltre due anni di attività, COOPI ha potuto raggiungere attraverso questi tipi d’intervento una popolazione di circa 430.000 persone nelle località di Mellit e Um Keddada, nello Stato del Nord Darfur.

Tale risultato, che riteniamo essere sicuramente importante se paragonato alle risorse e alle condizioni in cui ci siamo trovati a lavorare, purtroppo rappresenta solo un minimo miglioramento, se rapportato alle necessità effettive della popolazione. Lo stesso discorso può essere esteso per tutto il Darfur, nonostante la presenza di circa 13.000 operatori umanitari appartenenti a quasi 100 fra organizzazioni, agenzie e istituzioni della comunità internazionale.

I dati riportati nel “Darfur Humanitarian Profile” – pubblicato dall’ufficio del Rappresentante Speciale del Segretario Generale dell’ONU per il Sudan, parlano chiaro: le necessità di acqua potabile sono coperte solo per il 51%, almeno il 31% della popolazione vive in condizioni igieniche non soddisfacenti, circa il 50% non gode di un servizio di salute (sia per quanto riguarda interventi di prima assistenza, sia per la distribuzione di medicinali, sia per le cure di secondo livello), e lo stesso dicasi per l’educazione. Il livello di malnutrizione generale inoltre rimane sempre sopra la soglia critica.

Questa situazione, se a volte genera sconforto e un certo senso d’impotenza per chi lavora in loco, denuncia la necessità di un maggior intervento da parte della comunità internazionale.
Ma diversi ostacoli anno si che ciò fatichi a realizzarsi.

Il panel dei relatori, da destra: Uberto Pedeferri, Giampaolo Calchi Novati,
Francesca Sforza, Edoardo Greppi (foto sito Ispi).

Innanzitutto c’è un problema relativo all’accessibilità degli aiuti umanitari in Darfur. Già nel dicembre 2006, l’ONU lamentava che per le proprie agenzie l’accesso era stato ridotto al 64% del territorio del Darfur, percentuale mai così bassa dal 2004, mentre l’accesso per le ONG internazionali era dell’80% circa. Tale limitatezza era dovuta soprattutto (ma, come vedremo, non solo) al problema della sicurezza.

Problema che quasi paradossalmente è andato progressivamente crescendo dopo la firma dell’accordo di pace, il “Darfur Peace Agreement”, di un anno fa: probabilmente l’Accordo, non avendo tenuto conto delle esigenze di tutti gli attori coinvolti nel conflitto, ha avuto l’effetto di polverizzare il numero di gruppi ribelli che prima facevano riferimento ad uno o due gruppi, complicando ulteriormente il realizzarsi di un processo di pace fin dall’inizio traballante.

Sempre secondo quanto riportato dalle Agenzie ONU, negli ultimi 6 mesi del 2006 sono stati uccisi 12 operatori umanitari, più del doppio rispetto agli anni precedenti, sono stati sequestrati molti beni appartenenti a diverse ONG (soprattutto veicoli e telefoni satellitari) e molti operatori locali di ONG straniere sono stati assaltati, minacciati o rapiti, tanto che in più di 500 occasioni hanno dovuto temporaneamente lasciare il Darfur. Purtroppo questa tendenza non è andata migliorando nel corso del 2007, e assalti e sequestri sia di veicoli che di persone continuano tutt’ora: sono di qualche giorno fa le notizie del sequestro di alcuni operatori dell’UNHCR (in seguito rilasciati) o del fatto che alcune ONG internazionali importanti, dopo l’ennesimo attacco, abbiano deciso di abbandonare, per lo meno temporaneamente, il Paese.

E’ evidente dunque l’esigenza di una maggiore protezione sia per la popolazione che per gli operatori umanitari, protezione che le sole truppe dell’Africa Union non sono riuscite a garantire, tanto che l’intervento di truppe miste composte da Africa Union e caschi blu – come proposto dall’ONU e in linea di principio accettato dal governo di Khartoum (capitale del Sudan) – sia l’unica soluzione per garantire per lo meno l’apertura di corridoi umanitari permanenti che possano aumentare il livello di accessibilità degli aiuti.

Va detto che le ONG più a rischio di attacchi sembra siano quelle che lavorano nei campi profughi e quelle che offrono il proprio aiuto solo nelle aree non governative (ossia, non controllate dal governo sudanese). Per quanto riguarda quest’ultime, è abbastanza evidente il motivo per il quale siano obiettivo di attacchi, mentre per le prime, probabilmente ciò è dovuto al fatto di far sentire la propria voce nell’azione di denuncia della violazione dei diritti umani.

Paradossalmente quindi, sembra sia quasi più sicuro intervenire nelle aree remote nelle quali lavora COOPI, sempre che non vi siano in atto dei combattimenti. Nelle zone del Nord Darfur dove COOPI interviene i nostri operatori rappresentano una delle poche risorse e speranze per la popolazione locale e, indipendentemente dal fatto che queste siano controllate dal governo sudanese piuttosto che dalle forze ribelli, abbiamo sempre avuto non solo il sostegno della popolazione, ma anche quello delle autorità.
Se è vero che in due occasioni ci è capitato di essere stati assaltati e di aver subito il sequestro dei veicoli, è altresì vero che in entrambi i casi, nel giro di 24 ore, ci sono state riconsegnate le vetture, a testimonianza della considerazione che le autorità locali nutrono nei nostri confronti.

Uberto Pedeferri,
Coordinatore dei progetti di COOPI in Darfur e Sud Sudan.

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