Famiglia

Io, più papà che editore

Ha un figlio, Andrea, con la sindrome di Down. Ha voluto pubblicare un romanzo americano che racconta una sua moglie disse no all’amniocentesi...

di Sara De Carli

Un articolo su Repubblica che parla di lui. A 14 anni. Roba che non capita a tutti. Ma quando la madre gliel?ha letto, dicendogli «Hai visto, Andrea, quanto è orgoglioso di te il papà?», lui ha risposto: «Sono io che sono orgoglioso di lui». Il papà è Stefano Mauri, 46 anni, presidente del gruppo Mauri Spagnol (il cappello che edita Guanda, Garzanti, Longanesi, Corbaccio e Ponte alle Grazie). È lui che ha portato in Italia Figlia del silenzio, il primo romanzo di Kim Edwards: negli States è un bestseller da 3 milioni di copie. Parla di un padre che, negli anni 60, non riconosce la figlia down e per tutta la vita inganna la moglie facendole credere che Phoebe (questo il nome scelto per la bambina) è morta appena nata. Anche Mauri ha un figlio con la sindrome di Down: Andrea. Racconta l?aneddoto, sorride e sintetizza: «Semplice, affettuoso, impeccabile. Come sempre».

Vita: Perché ha voluto questo libro?
Stefano Mauri: La nascita di Andrea mi ha reso sensibile al tema della disabilità. In un certo senso erano quattordici anni che aspettavo un libro importante sulle persone down, qualcosa di paragonabile al film L?ottavo giorno. Quando dico importante intendo letto da molti, perché i romanzi sono uno strumento di pre-immaginazione: se il romanzo ha successo sarà un passo in più verso l?integrazione, ma per far questo venti libri da 5mila copie sono altro che uno che ne vende un milione.

Vita: Spesso i genitori di bambini disabili leggono molto criticamente ciò che viene scritto sulla disabilità?
Mauri: Sì, abbiamo un nervo scoperto. Però questa autrice, che pure non ha un?esperienza diretta della sindrome di Down, è riuscita a parlarne senza urtarmi e, anzi, portandomi quasi a riconoscere Andrea nella descrizione che fa di Phoebe adolescente. Questo è stato per me il segno che il romanzo era buono.

Vita: Cosa le dà fastidio in quel che legge sulla disabilità?
Mauri: Mah, sa, finché si tratta di cose che leggi? quello che mi dà fastidio è il modo in cui certi medici trattano te e tuo figlio disabile. Lo stile. Quando è nato Andrea ho incontrato Jérôme Lejeune, il genetista che ha scoperto il cromosoma in più alla coppia 21, e Reuven Feuerstein, che a Gerusalemme si occupava di integrazione dei bambini sopravvissuti ai campi di concentramento: poi gli è nato un nipotino down e ha iniziato ad applicare a loro il suo metodo. Lejeune e Feuerstein quando gli abbiamo portato Andrea lo hanno visitato a lungo e poi ci hanno detto che cosa dovevamo fare; molti medici italiani invece Andrea non lo hanno neanche guardato in faccia e hanno detto ?se è down dovete fare così e cosà?. Questa differenza c?è, tra i medici e tra la gente: c?è chi non guarda Andrea come una persona, ma come una malattia.

Vita: David, il protagonista del libro, del figlio maschio dice subito «è mio figlio», mentre per la gemella down non usa mai questa espressione? Lei quel «mio figlio» quando lo ha detto?
Mauri: Subito. Appena ci hanno detto della sindrome di Down sono corso a registrarlo in Comune. Volevo che fosse il bambino riconosciuto più in fretta d?Italia. D?altra parte durante la gravidanza avevamo deciso di non fare l?amniocentesi: come dice Magris, ci sono cose indecidibili, meglio non trovarcisi di fronte.

Vita: Però ha parlato di un lutto dinanzi al bambino che era nato?
Mauri: Sì, nella prima settimana ho sepolto il bambino che avevamo aspettato per nove mesi e poi ho accolto Andrea. Eravamo intontiti, i parenti venivano da noi come da chi ha appena perso qualcuno, con una partecipazione mista a compatimento. Ho pensato: «Sembra un funerale» e mi sono reso conto che era vero, perché persino io, che di solito non mi faccio aspettative, durante la gravidanza avevo proiettato su Andrea le mie qualità: è un maschio, lo porterò a sciare, magari diventerà editore. Quando è nato Andrea, è morto il bambino immaginario, un bambino che non era mai esistito e che non sarebbe comunque mai esistito, nemmeno se Andrea non fosse stato down.

Vita: Questo capita a tutti i genitori…
Mauri: Sì, però il fatto che ci fosse una diversità genetica ci ha obbligato a prenderne atto: sapevamo di dover crescere una persona diversa. Mentre con un figlio normale spesso arrivi all?adolescenza crescendo un tuo alter ego, poi ti svegli una mattina e dici «ma chi è questo?». Andrea è stato cresciuto come dovrebbero essere cresciuti tutti i figli, senza proiettare su di loro troppe attese. Intendiamoci, non siamo genitori perfetti: le attese di cui non abbiamo caricato Andrea, io e la mia ex moglie le abbiamo riversate sulla sorella. Tutti i progressi del figlio handicappato vengono salutati con gioia, e i fratelli non capiscono. «Perché lui ha fatto un saltino di un centimetro, tutti lo applaudono mentre io faccio un salto mortale e mi dicono ?spostati che devo guardare la tv??». Sembra che ribalto le cose, ma è così.

Vita: C?è chi dice che il dolore non sia la condizione dei bambini disabili, quanto quella dei genitori delusi. Che ne pensa?
Mauri: Sì, può essere. Tra l?altro questo vuol dire che quando un medico ha davanti i genitori di un neonato con un handicap, i pazienti veri sono loro.

Vita: Come definisce il suo ruolo di padre?
Mauri: Il primo compito è di scoperta, capire chi è questo bambino. Poi ti concentri più sulla loro felicità che non sulla loro realizzazione. Io mi sono dato una regola: non fraintendere l?autonomia con il far tutto da soli. Autonomia è saper chiedere aiuto quando ne hai bisogno. È la via di mezzo che ho trovato fra accettare i down così come sono o portarli a fare tutto quello che fanno gli altri.

Vita: Ha detto che per un giro del mondo sceglierebbe Andrea per compagno?
Mauri: Sì, ma a patto che il viaggio non sia in macchina! Perché in macchina Andrea canta sempre e finisce che mi assorda.


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