Famiglia

Il naufragio di tutte le ragioni

Una riflessione: l'Iraq è figlio della nostra incapacità di abitare questo pianeta

di Marco Revelli

Abbassiamo il tono della voce. Riduciamolo fino al suo livello più basso, fino al sussurro. C?è già troppo strepito di armi, e di orrori, e urla di rabbia o di dolore, in questa vicenda senza fine, perché ognuno aggiunga anche le proprie. E c?è troppa retorica di bandiera, troppe prediche da pulpiti tranquilli, troppe invettive che durano il tempo di una notizia, il passaggio di un telegiornale, perché le parole gridate mantengano un senso. Diciamolo dunque nel modo più pacato, meno accusatorio possibile – sottovoce – ma diciamolo: la vicenda irachena ha passato ormai ogni limite, si avvicina sempre più a un punto di non ritorno. I massacri che ogni giorno sfilano sui nostri teleschermi, e che sempre meno fanno notizia perché trapassati ormai all?orrenda condizione di ?normalità?, richiedono, a tutti – a tutti! – un?assunzione di responsabilità. Non possono più essere oggetto di distaccata disputa sui ?mezzi? più adeguati per regolare le situazioni critiche. O sulla questione apparentemente nobile – in realtà, nel contesto attuale, sordida – sul modo migliore per diffondere la ?democrazia?. O sul velenoso problema della ?sicurezza? e degli strumenti per assicurarcela (costi quel che costi agli altri). Non si tratta più di misurare gli argomenti di ieri con la realtà di oggi per assegnare un qualche premio di preveggenza, una bandierina in più nel quadro del dare e avere della politica quotidiana. Si tratta, al contrario, di stabilire, per ognuno di noi, dove si fissa il limite oltre il quale cessa il confronto con gli altri (il problema di affermare le proprie ragioni, quali che siano, sulle loro) e incomincia quello con se stessi. Si apre il contenzioso sulla propria personale responsabilità. Il che significa, per chi allora fu contro, una serena rinuncia al piacere autistico de «l?avevamo detto!», come se l?aver avuto ragione ieri possa riparare i danni feroci dell?oggi, o attenuarne il dolore. E per chi allora fu a favore, l?abbandono dell?avvocatesco ricorso ai cavilli per uscirne in qualche modo; della pelosa (e penosa) ricerca delle cause sempre ?esterne? del fallimento, a difesa di una buona fede marcita, di una verginità da tempo finita. Buttiamo tutti a terra gli scudi, e lasciamoci, senza difese catafratte, interpellare dalla tragedia in corso. Non distogliamo lo sguardo, come si fa da una partita decisa nel suo punteggio finale, sia che si creda di aver vinto (di aver avuto ragione nelle previsioni e negli esiti) sia che si creda di aver perso (per un qualche accidente del destino), perché qui non ci sono vincitori e vinti. C?è solo il naufragio di tutte le ragioni di fronte ai corpi senza nome né rispetto di decine di migliaia, forse centinaia di migliaia, di vittime della nostra arroganza o della nostra debolezza, comunque della nostra incapacità di abitare degnamente il pianeta. Forse allora, da ?disarmati? fisicamente e metaforicamente, potremo ritrovare, tra le ombre del futuro dell?Iraq, una traccia di dignità responsabile. E anche (forse) le parole per tornare a parlarci e a parlarne sapendo di dover ricominciare tutto – ma proprio tutto! – Vedi anche: Iraq: il disastro umanitario


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