Formazione

Iraq: il disastro umanitario

Centinaia di migliaia di morti. Ancora più i profughi. Una situazione sfuggita di controllo a tutti. A collaborato Joshua Massarenti

di Paolo Manzo

«Per la sicurezza e la pace questa guerra civile è una tragedia». Ishlemon Warduni, vescovo caldeo di Bagdad, sintetizza in questa frase telegrafica la situazione dell?Iraq odierno, 1.342 giorni dopo l?attacco sferrato da George W. Bush, il 18 marzo 2003. «Negli ultimi mesi la situazione è peggiorata molto: autobombe, kamikaze e rapimenti. Ogni giorno che viene è peggiore di quello precedente e nessuno è più sicuro di poter tornare sano e salvo a casa quando esce». Non lo spaventa ammettere l?esistenza di una guerra civile al telefono con Vita («ma come avete fatto a prendere la linea, qui i telefoni fissi non funzionano quasi mai», chiede stupito). Del resto lui è in prima linea da quando – il primo agosto 2004 – furono attaccate le principali chiese cristiane della capitale. Si parlò di odio anticristiano, lui minimizzò e ci diede una lezione di ecumenismo sul campo. Allora come oggi: «Certo, per noi cristiani è sempre più difficile riunirci per pregare ma, quando succede qualcosa a noi, abbiamo molta visibilità. Ciò che voglio si sappia in Italia è che qui la tragedia è di tutto il popolo iracheno, mica solo nostra». «A differenza di Kofi Annan, che lunedì 27 novembre ha detto che ?ci siamo quasi? e di altri per cui ?siamo sull?orlo di?, lo scriva a chiare lettere: in Iraq la guerra civile c?è già da tempo». Concordano in pieno con Warduni (e si sfogano) Paolo Beccegatoe Silvio Tessari, responsabili rispettivamente dell?area internazionale e dell?ufficio Medio Oriente di Caritas Italiana. A differenza di molte ong, italiane e internazionali, che progressivamente hanno ritirato tutti i loro espatriati (compresa la storica Un Ponte per…), l?organismo costituito per decreto della Cei nel 1971 «non ha mai lavorato in Iraq con personale italiano». Una scelta strategica perché «crediamo che i locali siano più funzionali, parlano l?arabo, conoscono luoghi e persone. E poi dall?inizio, anche per la commistione militareumanitario, era troppo rischioso mandare espatriati italiani». Ciò premesso, tuttavia, «recentemente Caritas Iraq ha dovuto chiudere la sede di Mossul, mentre a Bassora è stato difficile lavorare sin dall?inizio, per cui abbiamo dovuto appoggiarci alla Croce Rossa internazionale e ad altre realtà», spiega Beccegato. Quattro i settori in cui è impegnata Caritas Iraq: il Well-Baby Program per la protezione materna e infantile, l?assistenza sanitaria ad alcune categorie sociali vulnerabili nel Paese (donne, anziani e disabili), la formazione professionale e la promozione del volontariato, che «non è nella tradizione irachena ma è molto efficace in uno stato dove il 60% della gente ha bisogno di aiuto e dipende dalle distribuzioni di viveri fatta dal World Food Program », racconta Tessari. Che dalle pagine di Vita lancia un allarme-appello: «Per continuare i progetti in Iraq la Caritas avrebbe bisogno di almeno un milione di euro in tre anni». Il profilo calante dell?umanitario in Iraq, sia esso finanziario o di presenza, è rappresentato in modo paradigmatico anche dalla Croce Rossa italiana, che proprio nei giorni scorsi ha ritirato tutto il suo personale espatriato «da Nassiriya, riportando la sua bandiera in patria», spiega Massimo Barra. «Per il momento rimaniamo a Bagdad per aiutare a gestire il Medical City Center che, da alcuni mesi, è stato affidato agli iracheni». Qui gli espatriati italiani sono assenti non per scelta strategica, bensì per motivi di sicurezza, «però speriamo presto di poterli rimandare e anche di lasciare un ricordo permanente: un padiglione di nuova costruzione ». Al momento ogni mese i responsabili della Cri «incontrano ad Amman, in Giordania, i dirigenti iracheni del Medical City Center, per pagare le fatture e controllare che tutto vada avanti bene », confida a Vita il presidente nazionale della Croce Rossa italiana. Sul versante delle organizzazioni non governative, le uniche due italiane ad avere ancora espatriati in Iraq, nella zona Nord controllata dai curdi, sono Intersos ed Emergency. Maida Molfetta è una di questi, e per Intersos coordina un programma di formazione per il capacity building di assistenti sociali e insegnanti a Dohuk, in un?area relativamente più tranquilla rispetto alla guerra civile che dilania Bagdad. Ma solo relativamente, perché «se Dohuk è sicura, Mossul è un inferno. Nonostante gli appena 40 minuti di macchina tra le due città», racconta Maida. La situazione più stabile qui è dovuta al fatto che le autorità autonome curde hanno messo dei check-point lungo tutto la frontiera che separa la regione dall?Iraq centro-meridionale: solo questo, in realtà, consente la presenza di operatori umanitari internazionali nel Nord. «Pensi che negli ultimi giorni i dottori anticipano il loro rientro a casa di due ore, alle 13.30 anziché alle 15.30. Ma pure la vita nei quartieri è diventata impossibile: la maggioranza dei nostri dottori è sunnita, ma alcuni vivono in zone sciite della capitale, il che li spinge a dovere lasciare la città». Chi ci fa tornare nell?inferno di Bagdad è Alessandro Guarino, responsabile Intersos di un rivoluzionario programma di telemedicina tra il Children Welfare Teaching Hospital e il Policlinico Umberto I di Roma. Dal 2004, fornisce ai medici della capitale irachena consulenze, sessioni di formazione sull?oncoematologia pediatrica e su questioni di medicina generica. Finanziato dal ministero degli Esteri, il programma prevede ogni settimana due sessioni di teleconferenza via satellite, effettuate con l?aiuto dell?Agenzia spaziale europea e della società Telbios. I dottori a Bagdad e Roma s?incontrano in video per discutere casi, definire trattamenti di cura e sessioni di formazione. «I primi risultati sono stati molto incoraggianti», racconta Guarino. «Basti pensare alla riduzione del 50% di mortalità per la Lap, la leucemia acuta promielocitica». Un dato positivo – l?unico – in una capitale dilaniata dalla guerra civile dove «l?insicurezza è aumentata drammaticamente. Ce ne rendiamo conto dalle testimonianze rilasciate dai nostri medici, diventati nelle ultime settimane veri e propri target degli attentatori». Vedi anche: Un paese al tappeto, ecco le cifre 2006, un anno nero per i civili iracheni Il naufragio di tutte le ragioni E ora non resta che dividere l’Iraq


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