Cultura

Che cosa insegna il viaggio del papa?

Editoriale/ Il viaggio del Papa in Turchia è alle prime battute: eppure il significato e la portata sono già chiare

di Giuseppe Frangi

Nel momento in cui scriviamo questo editoriale, il viaggio del Papa in Turchia è alle prime battute: eppure il significato e la portata sono già chiare. Innanzitutto non può non colpire il coraggio del Papa. Non si è tirato indietro, non ha esitato ad affrontare una missione piena di incognite e pericolosa sotto tanti profili. Il movente del viaggio era di una semplicità assoluta: rendere omaggio a un sacerdote ucciso da un fanatico lo scorso anno a Trebisonda. Poi la missione si è caricata via via di significati grandi, di tensione, assumendo a volte risvolti anche inquietanti. Il Papa si è però mosso facendosi guidare da una logica a cui quasi nessun potente della terra ha più il coraggio di credere: la logica secondo cui l?incontro è molto più efficace dello scontro. Secondo cui l?incontro è il metodo più efficace per proporsi e per scoprire la verità dell?altro. La forza dell?incontro era l?unica ?arma? di cui il Papa potesse disporre: rappresentante di uno Stato infinitesimale, di una religione mite e sotto assedio (più sotto assedio dal trionfante consumismo che dall?islam, per la verità), Benedetto è arrivato con un carico di grande stima per la tradizione che lo attendeva; e con la speranza di poter aiutare a costruire un futuro di reciproca accettazione e comprensione con i musulmani (ha detto martedì: «Tutti gli uomini sono profondamente solidali e dobbiamo invitarli a porre in risalto le loro differenze storiche e culturali non per scontrarsi ma per rispettarsi reciprocamente»)

È impressionante come la mitezza possa avere forza di convinzione e di persuasione. Non ha bisogno di parole, perché i gesti sono più semplici e più eloquenti. Ed è impressionante pensare il contrasto tra questa metodologia dell?incontro e gli infiniti disastri che invece la logica dello scontro continua a disseminare nel non lontano Iraq.

Da questo punto di vista la ricaduta riguarda tutti e ci riguarda qui: dal modo di impostare i rapporti al modo di fare informazione. La pretesa ?monoculturalista?, come ha raccontato con la consueta lucidità il laico Gustavo Zagrebelski sulle colonne di Repubblica, ha già procurato sufficienti disastri perché non si pensi di affidarla agli archivi. «I monoculturalisti credono sia loro diritto naturale possedere la terra su cui è dato loro di vivere, così la trasformano in terra di coltura per la loro solo cultura. Non si accorgono così di trasformarla in un campo di battaglia», ha spiegato Zagrebelski.

L?antidoto al ?monoculturalismo? Zagrebelski lo chiama ?interazione?, ovvero «la necessità e la capacità delle culture di entrare in rapporto, sia per definire se stesse, sia per costruire insieme». Una posizione (anzi, un?esperienza) che è stupendamente documentata in un libro appena uscito. Lo ha scritto un missionario olandese da ben 40 anni docente al Cairo (Christian Van Nispen, Cristiani e musulmani, fratelli davanti a Dio?, edizioni Marcianum Venezia). Van Nispen spiega come nei suoi lunghi anni al Cairo l?incontro quotidiano con personalità musulmane abbia prodotto con naturalezza una «vita insieme nella società ». Il libro è la documentazione puntuale, sobria e del tutto credibile di questo cammino compiuto nella realtà «delle relazioni e della vita comune concreta in tutte le sue dimensioni, politica, culturale, economica, sociale». E la relazione con Dio? Non ha mai ostacolato, ma anzi ha generato relazioni con gli uomini, risponde Van Nispen. C?è davvero da credergli.

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