Mondo

Darfur: perché la macchina umanitaria ha fallito

Marc Lavergne, inviato Onu incaricato da Kofi Annan di monitorare la situazione in questa regione insanguinata del Sudan, anticipa a Vita le conclusioni della sua missione

di Joshua Massarenti

Cambiano gli scenari, ma non la sostanza. Dopo la Bosnia e il Rwanda, ecco la volta del Darfur, l?ultimo, ennesimo fallimento della comunità internazionale. Nonostante la presenza di circa 14mila operatori umanitari (un record) e di oltre 7mila soldati dell?Unione africana (una prima assoluta), le popolazioni civili di questa martoriata regione del Sudan occidentale continuano a rimanere schiacciati negli scontri che oppongono il regime del presidente Omar el Beshir a una confusa pletora di movimenti ribelli. Dall?aprile 2003, il conflitto del Darfur ha fatto 300mila morti e oltre 2,5 milioni di sfollati (ai quali si sommano 200mila rifugiati nel vicino Ciad). Testimone eccellente di questa clamorosa ?impotenza? è Marc Lavergne, giovane ricercatore del Cnr francese e profondo conoscitore della realtà geopolitica e sociologica sudanese, a cui il segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan ha affidato il compito di coordinare un gruppo di esperti incaricato di stilare sotto l?egida del Comitato delle sanzioni Onu sul Sudan la lista delle persone responsabili di aver violato i diritti umani e l?embargo sulle armi. «E di violazioni ve ne sono in continuazione», sostiene Lavergne. Per porvi fine, il Consiglio di sicurezza dell?Onu ha votato, il 31 agosto scorso, una risoluzione che, mal grado la contrarietà di Cina e Russia (alleati a Khartoum), prevede la sostituzione dei soldati africani con 17mila caschi blu. Basterà a fermare i massacri? «Sì e no», risponde Lavergne. «Molto dipenderà dal tipo di dispiegamento. Metà del Darfur è desertica e gli sfollati sono principalmente concentrati in città e nei campi profughi. Quindi basta difendere questi punti nevralgici per dissuadere il nemico dal colpire i civili e conquistare la loro fiducia». Una fiducia ridotta ai minimi termini nei confronti della comunità internazionale di cui la macchina umanitaria costituisce l?avamposto. In attesa del 29 settembre, data in cui il Comitato delle sanzioni Onu renderà pubblici (e probabilmente solo in parte) i contenuti del rapporto appena stilato dal gruppo di esperti, Lavergne confida a Vita le vicissitudini di un mondo umanitario sull?orlo del baratro. Vita: George Clooney chiede sanzioni per i responsabili dei massacri in Darfur. Sembra che l?appello sia rivolto proprio a lei, o sbaglio? Marc Lavergne: No, perché non ci si chiede stilare una lista di pregiudicati da processare all?Aja. Il nostro lavoro consiste nell?identificare sul terreno una serie eventuale di violazioni, dimostrarle con i fatti e identificare i loro responsabili, da quelli diretti ai possibili mandanti. Sino ad ora, il Comitato delle sanzioni ha ritenuto quattro nomi proposti dal precedente gruppo di esperti. Domani vedremo. Vita: Dal suo osservatorio, che situazione ha visto in Darfur? Lavergne: La situazione continua a peggiorare. I villaggi sono ancora bruciati e le donne vengono violentate non appena escono dai campi profughi. All?interno dei campi abbiamo invece a che fare con una forte espansione della criminalità, in parte dovuta al fatto che molte donne producono e vendono alcool per sopravvivere. Vita: La produzione di alcool in un?area musulmana non è molto ricorrente? Lavergne: è una tradizione assai diffusa in Darfur. E poi le donne lo producono su richiesta dei soldati che, assieme ai banditi, ne sono i più grandi consumatori. Purtroppo le conseguenze sono sempre le stesse: ubriachi che depredano e uccidono civili. Del resto, il fenomeno non preoccupa più di tanto le autorità locali. Al contrario, c?è chi è ben felice di vedere le proprie truppe ubriacarsi per dimenticare i propri disagi quotidiani. Vivere in Darfur, mi creda, è molto duro, anche per chi comanda. Vita: Intanto però ci sono due milioni di sfollati? Lavergne: Siamo al cuore del problema. Per via dell?insicurezza, da luogo transitorio i campi profughi sono diventati fisse dimore. Tra gli sfollati, ci sono molti giovani che si sentono come leoni in gabbia, pronti a esplodere la loro rabbia in qualsiasi momento. Il problema è che circolano sempre più armi leggere? Vita: E queste armi da dove giungono? Lavergne: In realtà circolano a tutti i livelli: dai paesi vicini e dalle altre regioni sudanesi, a volte con voli notturni; tra i militari, i ribelli, i banditi e ormai anche i civili. Le si vede nei mercati, nei garage, nei campi profughi e, ovviamente, nei centri di comando militare. Una volta mi è addirittura capitato di vedere militari indisturbati montare in piena strada una mitragliatrice su un pick-up. Purtroppo il fenomeno ha una dimensione internazionale. In Repubblica democratica del Congo o in Nord Uganda, c?è una sovrabbondanza di armi leggere da liquidare in mercati attraenti. Vita: Quali le ripercussioni sulle attività umanitarie? Lavergne: Gravi. L?insicurezza è di continuo all?ordine del giorno. Per spostarsi, ci vuole una conoscenza perfetta del territorio, pena i furti e gli omicidi che si stanno intensificando nel Nord Darfur. Di solito, gli autisti degli umanitari si mettono d?accordo con chi controlla una determinata area, ma a volte non basta. Esiste un traffico transnazionale di macchine rubate agli operatori umanitari e rivendute addirittura in Nigeria. Le 4×4 in possesso di ong e agenzie Onu sono molto apprezzate sul mercato africano. In alcuni casi, si tratta di operazioni eseguite su ordinazione, giunta dall?altro capo del continente africano. Ai banditi viene anticipato il 50% della somma concordata, il resto è versato dopo la consegna della merce. Vita: Intanto tra maggio e settembre sono morti 12 operatori umanitari. I furti non possono spiegare tale ondata di violenza? Lavergne: Dapprima c?è una chiara strategia di Khartoum per ostacolare l?umanitario nella speranza di ammorbidire le posizioni del Consiglio di sicurezza, Stati Uniti in testa. Ma direi che c?è anche un?insofferenza, se non un rancore, molto palpabile delle popolazioni civili nei confronti del mondo umanitario. Nonostante la presenza di una settantina di ong e di oltre 14mila operatori umanitari, le persone si sono ormai convinte che questa presenza non risolve i loro problemi legati all?insicurezza e al desiderio di tornare a casa. Viceversa, gli operatori umanitari sono ormai confusi, coinvolti in attività a cavallo tra l?emergenza e lo sviluppo, in un contesto di crisi irrisolto che richiede sforzi operativi enormi. A fronte di questo fenomeno, si sta intensificando un trasferimento dei fondi dal Darfur ad altre crisi umanitarie e progetti di sviluppo. Molte ong non riescono più a fare raccolte fondi efficaci per un conflitto che non attira i media. La tendenza si è purtroppo aggravata con la guerra in Libano. Intanto si sono costruite scuole, centri sanitari, pozzi, adduzioni d?acqua, insomma tutta una serie di strutture e infrastrutture di cui va garantito il buon funzionamento. Ora, senza soldi, questi sforzi rischiano di svanire nel nulla. Vita: Si può parlare di una ritirata generale? Lavergne: No, ma molte ong si stanno ritirando dai luoghi più insicuri per concentrare le loro attività nei grandi campi profughi situati alle porte delle città. Questo con buona pace delle popolazioni rurali. Almeno cinque di questi campi accolgono ognuno centomila abitanti. è una concentrazione enorme che fa gioco al governo, da sempre favorevole a radunare gli sfollati per sottoporli allo stretto controllo dei servizi di sicurezza. Bisogna ricordare che il Darfur è un territorio molto vasto. I famosi janjaweed sono stati reclutati proprio per colmare le lacune dell?esercito regolare, incapace di controllare le aree rurali. Non a caso le milizie janjaweed e ormai quelle dell?ex ribelle Minawi, firmatario dell?accordo di pace di Abuja del 5 maggio scorso, hanno l?incarico di spingere i civili verso le città. Vita: Quali i bisogni urgenti per le popolazioni? Lavergne: Tornare a casa, ovviamente. Nell?immediato c?è un?insicurezza alimentare persistente. L?acqua è l?altro grande problema. Per capire il fenomeno, bisogna immaginarsi campi profughi immensi costruiti dall?oggi all?indomani e senza nessun allacciamento in acqua e in elettricità. Un lavoro straordinario è stato svolto dalle ong. Purtroppo, a molte di loro è stato chiesto di prendere in carico la manutenzione delle strutture, ma questo non fa parte del loro compito. Le ong tendono a trasferire i loro progetti a ong locali prive di risorse umane e spesso squattrinate. E sono guai perché l?arresto improvviso di un sistema di distribuzione acquifera centralizzato può mettere a repentaglio la vita di migliaia di sfollati. Poche settimane fa, in un campo profughi tre agenti umanitari del governo sudanese sono stati linciati dalla folla, convinta che stavano avvelenando l?acqua mentre non facevano altro che buttare cloro. Vita: Qual è il nodo da sciogliere in questa crisi? Lavergne: Disarmare i belligeranti. Purtroppo le grandi offensive che si sono verificate in Nord Darfur dopo l?accordo di pace sono un cattivo presagio, e temo che il dispiegamento di 17mila caschi blu non risolverà il conflitto. Mancano i fondi e una chiara volontà della comunità internazionale di fermare le violenze. Vita: Professor Lavergne, c?è genocidio in Darfur? Lavergne: No, per il semplice motivo che non esistono le prove della pianificazione e dell?attuazione di uno sterminio da parte di Khartoum contro le popolazioni del Darfur. Il Comitato delle sanzioni Onu sul Sudan: www.un.org/Docs/sc/committees/SudanTemplate.htm Il sito più aggiornato sul Sudan e il Darfur: www.sudantribune.com


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