Mondo

Il Darfur sprofonda nel silenzio

Inasprimento del conflitto. Molte aree del centro e del sud "chiuse" agli operatori umanitari che non possono assistere 500mila persone

di Joshua Massarenti

Uno scenario che rischia di diventare apocalittico, se mai non lo fosse già. Per la prima volta dall’inizio del conflitto che oppone in Darfur, regione occidentale del Sudan, il regime di Khartoum a gruppi ribelli locali, vaste aree del centro e del nord della provincia sono ormai considerate zone chiuse per le ong internazionali che operano sul territorio. Conseguenza diretta, oltre 500mila persone sono prive di qualsiasi assistenza umanitaria. “Mai si era verificata una tale configurazione” rivela con linguaggio tutto diplomatico un osservatore europeo sul quotidiano francese Le Monde. A conferma del dramma che si sta profilando in Darfur, il Programma alimentare mondiale (Pam) ribadisce che “la sicurezza è il nostro problema numero uno”. Secondo le ultime stime dell’agenzia Onu, il numero di civili in attesa di assistenza umanitaria urgente ma a cui le ong le ong non possono accedere, sono passate da 290mila in giugno a 470mila in luglio. Una cifra che molto probabilemente andrebbe rivista dopo che truppe governative e ribelli si sono nuovamente scontrati nel nord della provincia durante il mese di agosto. L’ong francese Action contre la faim avrebbe accolto nel campo profugo di Assalam almeno 16mila persone in fuga da scontri armati a nord di El Fasher. Secondo il capomissione Franck de Saint-Simon, “su sfondo di massacri e di razzie, stiamo assistendo alla destabilizzazione della società rurale”. Rispetto al passato tuttavia, i protagonisti della guerra sono cambiati. Peggio, “i famosi janjawweed (milizie armate dal regime centrale di Khartoum) sono soltanto uno degli strumenti di questa guerra civile, e i loro padroni, coloro che li manipolano, non sempre gli stessi”. Così, quello che veniva definito il vero leader dei ribelli darfuriani, il generale Minni Minawi, capo dell’Esercito di liberazione del Sudan (Sla), la più importante fazione della ribellione, sarebbe diventato il primo consigliere del presidente sudanese Omar El-Beshir, il deus ex machinae della guerra in Darfur. E se dapprima gli obiettivi di Minnawi erano i militari sudanesi, ormai a rimanere vittime delle sue esazioni sono i civili del Darfur. “Ci sono molto meno scontri militari” afferma Saint-Simon a Le Monde. “Invece, si sono molteplicate aggressioni, esazioni e atti di banditismo”. Secondo un alto funzionario delle Nazioni Unite raggiunto telefonicamente da Vita, “la capacità di azione delle ong è molto limitata”. Molto è dovuto “alla scarsa pressione della Comunità internazionale, ormai essenzialmente concentrata sul conflitto libanese. Questo fa sì che le ong non riescono più a mobilitare l’opinione pubblica rispetto a un conflitto lontano e che ormai perdura da oltre tre anni”. Tra l’insicurezza e l’indifferenza della Comunità internazionale, “le ong sono tentate di fare le valigie e andarsene via. Alcune di loro prendono come pretesto agressioni ai propri operatori umanitari per scappare dal Darfur”. Purtroppo, con gravi conseguenze per le popolazioni civili. “Non c’è bisogno di una laurea per capire cosa sta succedendo qui. La gente ha perfettamente capito che le ong non reggono più la realtà del Darfur. C’è una sorta di delusione, se non di rancore nei confronti della Comunità internazionale. Purtroppo, a pagarne le conseguenze dirette sono anche le ong e gli operatori umanitari delle agenzie Onu, accusati di abbandonare i civili a loro destino”. Oltre il danno, la beffa quindi, “perché se in termini umanitari la situazione è catastrofica, l’immagine dell’Occidente ne sta uscendo a pezzi”. Eppure, l’accordo siglato nel maggio scorso tra i protagonisti del conflitto per garantire la sicurezza dei civili lasciava ben sperare. Dopo due mesi di accalmia, tuttavia, le armi sono di nuovo tornate alla ribalta dell’informazione. Prima con gli scontri di inizio agosto nel nord Darfur, poi nelle ultime settime con l’arrivo in massa di truppe governative. Di fronte alla minaccia di una ripresa della guerra su vasta scala, l’Onu, Washington in testa, chiede con urgenza la sostituzione dei 7mila soldati dell’Unione africana con una missione Onu composta da circa 17mila caschi blu. Ieri, il Consiglio di sicurezza si è riunito a porte chiuse per discutere la proposta della Gran Bretagna di inviare una forza Onu in Sudan. L’ambasciatore americano presso le Nazioni Unite John Bolton ha di nuovo chiesto un dispiegamento rapido di caschi blu in Darfur per rimpiazzare quelli verdi dell’Unione africana ormai in piena crisi. Sempre la fonte Onu di Vita assicura che “il ruolo dei soldati africani è ormai evanescente. Privi di mezzi adeguati, incapaci di potere ricorrere alla forza per fermare le violenze e soprattutto mal pagati, questi soldati non stanno facendo più niente. Sono stati abbandonati a se stessi, all’alcool e alla prostituzione”. Eppure, “la Comunità internazionale ha investito milioni e milioni di dolllari in questa missione dell’Unione africana. Purtroppo, i soldi non sono mai arrivati a destinazione, dilapidati dai governi coinvolti nella missione e dagli ambasciatori presenti a Addis Abeba”.


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