Giuseppe Pontiggia, 54 anni, è tornato sui banchi del liceo. È successo a Milano in una quinta ginnasio del Berchet dove lo scrittore si è sottoposto a un fuoco di fila di domande per due ore. Qualcuno in classe ha letto il suo primo romanzo, La morte in banca, e lo incalza: «Non crede di essere troppo pessimista?». «Perché pessimista», ribatte lo scrittore, «il finale è positivo: il ragazzo protagonista conserva tutte le sue speranze pur rendendosi conto di tutti i limiti e le difficoltà della realtà. La sua è una speranza meno utopica, più realista. Non è lui il fallito, sono i suoi colleghi adulti che guardano con cinismo ai suo sogni. In quel ragazzo di 17 anni c?è molto di me, proprio a quell?età lavoravo in banca e cominciai lì a scrivere questo primo romanzo. Anzi non avrei mai immaginato fosse diventato un romanzo. Fu mia mamma a cui una sera lo lessi che mi caricò dicendomi che lo trovava molto bello». I colleghi adulti di quell?adolescente che lavora in banca sono simbolo del mondo adulto? «Spesso gli adulti sono peggiori dei ragazzini e la cosa peggiore che possono fare è guardare con cinismo e sufficienza ai loro sogni, alle loro speranze. Ma per fortuna credo che a ognuno sia dato di incontrare un adulto come mia mamma».
L?intellettuale della classe fa la domanda più brutta: «Che messaggio vuole dare nei suoi romanzi?». Pontiggia è categorico: «I messaggi li dà la pubblicità, non uno scrittore, chi scrive si ispira alla realtà che è più dura, complicata dell?universo della pubblicità. Purtroppo siamo immersi in un mondo dove non sono più importanti i fatti ma la loro interpretazione, la loro spiegazione. Tutto ci viene spiegato anche se in forme ridicole. Se un narratore ha un compito è proprio quello di restituire l?incomprensibilità della realtà, perché i fatti sono un mistero. Per questo ci parlano. Se invece di spiegarli li ascoltassimo?».
Pa. Bo.
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