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Kabul, quei conti che non tornano

Afghanistan. La cooperazione in rotta con i militari / Entro la prima decade di luglio l’Italia deve rifinanziare la sua missione afghana.

di Paolo Manzo

La sicurezza ai militari, la cooperazione alle ong e alla direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del Mae, il ministero degli Esteri. Ma di ritiro del nostro contingente pochi parlano, se si esclude Gino Strada («Via le nostre truppe dalla guerra afghana, subito») e, seppure con un discorso assai più moderato, il viceministro degli Esteri con delega alla Cooperazione, Patrizia Sentinelli («Non possiamo restare in Afghanistan per sempre, dobbiamo prevedere una situazione di stabilizzazione che non richieda un intervento militare»).
Di certo la questione afghana rischia di tenere banco tra le fila della maggioranza nei prossimi giorni, dal momento che si deve decidere in Parlamento il rifinanziamento delle cosiddette ?missioni di pace?, mentre più di un analista intravede lo ?spettro Kosovo? che nel 1998 fece cadere il primo governo Prodi. Certo, la stessa Sentinelli da noi contattata lo esclude categoricamente, ma resta il fatto che Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani vorrebbero che i nostri 1.600 militari venissero subito a casa, facendo tra l?altro «risparmiare alle casse dello Stato un miliardo netto di euro», spiega a Vita Sergio Marelli, direttore generale della Focsiv che, proprio in questi giorni, ha editato un libretto dal titolo significativo: Tra sicurezza e sviluppo: il rischio di militarizzazione della cooperazione internazionale.
Una posizione in contrasto con quella del sottosegretario agli Esteri con delega per l?Asia, Gianni Vernetti, tornato recentemente proprio da una missione a Kabul, che ha proposto di aumentare il numero dei nostri militari in Afghanistan perché, spiega a Vita, «dobbiamo confermare in Parlamento entro la prima decade di luglio l?impegno assunto con Nato e Onu verso quel martoriato paese».
Al di là della politica, il problema di base è che, mentre per le «missioni militari in Afghanistan si spendono ogni anno circa 500 milioni di euro, per i progetti di cooperazione del Mae, nel quinquennio 2002 e 2006, a noi sono arrivati in totale 50 milioni di euro». Chi sottolinea questa disparità di trattamento che balza immediatamente agli occhi (uno a cinquanta il rapporto del finanziamento tra umanitario e militare ?di pace? sull?Afghanistan…) è Pietro De Carli, capo del Programma Emergenza della Cooperazione italiana nel paese asiatico. Non solo un problema di quantum, tuttavia, ma anche di efficienza. Spiega De Carli: «Il contingente militare ha spese enormi per mantenere le sue operazioni perché, se deve fare una scuola, gli costa venti volte quello che costa a noi. E badi che la mia convinzione nasce da una semplice constatazione tecnica, di chi è abituato a gestire progetti umanitari e di cooperazione, con un?ottica prettamente professionale di analisi dei costi-benefici».
De Carli snocciola le cifre che stanno alla base del suo ragionamento: «Se faccio una verifica scopro che i fondi d?emergenza stanziati dall?Italia per l?Afghanistan dal 2002 al 2006 ci hanno consentito di destinarne il 95,25% ai beneficiari e il 4,75% per i nostri costi di gestione». Una percentuale che stride con il rapporto costi-benefici della nostra presenza a Nassiriya, dove il contingente italiano ha ?assorbito? il 99% dei fondi stanziati, mentre appena l?1% è andato ai beneficiari per scopi umanitari. Certo, l?Operazione Babilonia è in Iraq e non è un Prt (vedi box a lato), ma si prefigge gli stessi scopi, sia militari che di cooperazione, dei Provincial Reconstruction Team afghani.
Sulla questione Prt, la posizione delle ong italiane è abbastanza uniforme. Per il Forum Solint, coordinamento di cinque organizzazioni non governative che operano nell?emergenza (Cisp, Coopi, Cosv, Intersos e Movimondo), i Prt sono «parte integrante della struttura militare e operano sotto il suo comando, come dimostrato dall?esperienza in Afghanistan nell?ambito dell?Operazione Enduring Freedom per combattere il terrorismo e dell?Isaf per garantire la sicurezza, alle quali partecipa il nostro paese. Non si tratta in realtà di squadre miste di civili e militari ma di militari che svolgono, in modo strumentale e finalizzato a obiettivi militari, compiti che dovrebbero essere svolti da civili. Da qui nasce l?ambiguità e la confusione che le ong denunciano, fino a esprimere gesti estremi come decidere di rinunciare a svolgere attività nei paesi o nelle aree in cui operano i Prt».
Per Nino Sergi, presidente di Intersos, «è giunto il tempo che istituzioni governative, politici, e ong affrontino con serietà questo tema. Per quanto mi riguarda ritengo che ognuno debba fare ciò per cui è preparato e formato, secondo la propria ?mission? e che ogni attività di cooperazione allo sviluppo, di ricostruzione e di aiuto umanitario debba essere lasciata in mano ai civili».
Una conferma di questa posizione la danno i numeri che ci fornisce ancora una volta De Carli: «In Afghanistan nessuna ong ha lavorato con i Prt e i motivi sono ovvi: c?è una presa di posizione unanime nel non volere mischiare umanitario e militare. Sarebbe stato molto meglio se il programma di cooperazione del Prt a Herat fosse stato fuori dalla base militare, autonomo, magari con la possibilità di rifugiarsi all?interno durante i momenti di aggravamento della situazione dell?ordine pubblico. Il fatto che invece fosse imposto ha provocato una difficoltà oggettiva a operare e a produrre dei risultati anche per noi della Cooperazione italiana».
Concetto confermato anche da Vincenzo Racalbuto, esperto di emergenze dell?Unità tecnica centrale del Mae e rientrato di recente dall?Afghanistan: «Per noi la cooperazione umanitaria deve essere separata dalle attività militari». Stop.
Ma il ritiro del contingente internazionale, italiani compresi, non se lo auspica nessuno di quelli che lavorano sul campo in Afghanistan perché, come spiega a Vita Alberto Cairo, raggiunto telefonicamente nel centro ortopedico della Croce Rossa internazionale che gestisce a Kabul, «se la comunità internazionale dovesse abbandonare il paese si tornerebbe a un dramma umanitario, con una guerra civile sanguinosa».

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