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Afghanistan: civile funzionale al militare?

Il documento di Nino Sergi spiega, con una completezza fuori dal comune, cosa c'è in ballo in Afghanistan. Per le ong e il governo che si appresta a rifinanziare la missione

di Paolo Manzo

Abbiamo accolto con soddisfazione la decisione del Governo italiano di rinunciare alla formazione di un PRT a Nassiriya in Iraq. Non si sarebbe trattato, come è stato detto, di una missione di civili tutelata da militari (circa 25 per ogni civile) ma di una vera e propria componente della missione militare internazionale. I PRT, infatti, pur modellandosi sulle realtà territoriali in cui sono realizzati, rimangono sempre parte integrante della struttura militare e sotto il suo comando. Si sarebbe trattato inoltre di un inganno, data la decisione di uscire militarmente dall?Iraq sancita anche dal voto popolare. Sarebbe stata in ogni caso una realizzazione costosa che, nonostante le buone intenzioni, non avrebbe garantito ai civili impegnati nelle attività di ricostruzione alcuna possibilità di libero spostamento e alcun vero contatto con le realtà con cui avrebbero dovuto cooperare. Purtroppo, la situazione venutasi a creare in Iraq non li permette, neanche a Nassiriya. Il tema dei PRT non si limita all?Iraq. INTERSOS ha espresso recentemente il proprio giudizio negativo su queste realtà sviluppatesi all?interno delle missioni militari in Afghanistan. Riteniamo necessario ritornavi in modo più approfondito, dato che lo sviluppo dei PRT nella realtà afgana rimane, a nostro avviso, problematico mentre continua ad essere ritenuto la grande novità strategica, molto mediatizzata e propagandata ma senza alcuna apprezzabile valutazione di merito. La problematicità a cui facciamo riferimento parte dal nostro punto di vista: quello di un?organizzazione umanitaria che opera in Afghanistan e che è inserita in quella realtà sociale volendo contribuire a dare alle popolazioni afgane ciò che più desiderano, un futuro di speranza; di un?organizzazione che legge la realtà nei paesi in cui opera e, per quanto riguarda la presenza internazionale militare nel paese, percepisce tale lettura è sempre più preoccupante. Non tocchiamo qui, volutamente, il tema dell?intervento militare nelle situazioni di crisi come quella afgana. Altre volte INTERSOS si è espressa in merito, operando le dovute distinzioni, individuando anche spazi di interlocuzione con i militari nelle situazioni che la richiedono per la salvezza e il bene delle popolazioni. Ora vogliamo soffermarci su alcuni aspetti della realtà delle forze internazionali in Afghanistan, compresa quella italiana, di cui evidenziamo alcune evidenti problematicità e contraddizioni. Lo facciamo anche per portare un contributo di conoscenza, analisi ed idee alla riflessione e alle scelte politiche che dovranno essere prossimamente prese. 1. DUE LE MISSIONI MILITARI INTERNAZIONALI IN AFGHANISTAN. Ci sembra importante ricordare innanzitutto che le missioni militari internazionali in Afghanistan sono due, anche perché si tratta di una duplicità non scevra di conseguenze e di ambiguità politiche e strategiche. Pur con un comune riferimento alla Carta delle Nazioni Unite ed una comune finalità generale, esse sono state costituite con due diversi obiettivi e sono state legittimate da due ben diversi mandati del Consiglio di Sicurezza. a) Operazione Enduring Freedom (OEF) La prima, l?Operazione Enduring Freedom (OEF), è avviata dagli USA e dal Regno Unito (RU) il 7.10.01 sulla base dell?art. 51 della Carta delle NU (diritto all?autodifesa). L?azione miliare, a cui sono invitati a partecipare gli altri paesi, è un?operazione di guerra e ha l?obiettivo di combattere il terrorismo, le basi e l?organizzazione di Al Qaeda e del regime talebano in Afghanistan. Nelle comunicazioni al Consiglio di Sicurezza, il riferimento di legittimità è l?art. 51 della Carta. Vengono cioè ignorate, sia dagli USA che dal RU, le precedenti risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1368 del 12.9.01 e n. 1373 del 28.12.01 che contengono l?invito agli Stati a mettere in atto misure per prevenire e reprimere attacchi terroristici e per combattere chi li attua. Per l?OEF, si preferisce quindi la via dell?iniziativa unilaterale, su cui coalizzare il consenso, rispetto a quella multilaterale conseguente alle Risoluzioni ONU. In Italia, il 9.10.01 la Camera dei Deputati approva una risoluzione che assicura il sostegno alle azioni anche militari degli USA, in applicazione dell?art. 5 del Trattato NATO, delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e delle conclusioni del Consiglio europeo del settembre 2001. La partecipazione effettiva all?OEF viene approvata dalla Camera il 7.11.01 e l?Italia mette a disposizione 2900 militari (scesi attualmente a 250 circa). b) Internationali Security Assistance Force (ISAF) La seconda, l?Internationali Security Assistance Force (ISAF), è prevista negli accordi di Bonn del 5.12.01. Con la risoluzione 1386 del 20.12.01 il Consiglio di Sicurezza autorizza il suo dispiegamento, sotto il cap. VII della Carta ONU, per un periodo di 6 mesi (periodicamente rinnovato). L?obiettivo è limitato: assistere l?Autorità transitoria afgana nel mantenimento della sicurezza a Kabul e negli immediati dintorni al fine di garantire la sicurezza per l?operatività dell?Autorità afgana e del personale ONU. A questo fine è stato firmato un accordo con le Autorità provvisorie afgane il 4.1.02. L?ISAF continua tuttora, ma con un mandato modificato e molto ampliato. Il comando è passato, a turnazione, dal RU (gen. 02) alla Turchia (giu. 02), a Germania-Olanda (feb. 03). L?11.8.03 passa sotto comando NATO e una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza, la 1510 del 13.10.03, ne estende il mandato anche al di fuori di Kabul. L?obiettivo è sempre quello di ?garantire la sicurezza dell?operatività delle Autorità afgane, del personale ONU e degli operatori internazionali impegnati nella ricostruzione e negli aiuti umanitari?. La risoluzione chiede, tra l?altro, di agire in stretta consultazione con la struttura di comando della coalizione dell?OEF. Con essa l?ISAF mantiene infatti un ?costante e robusto? coordinamento operativo, anche perché l?ampliamento del mandato sul territorio significa, nella realtà, una sovrapposizione e progressiva sostituzione con l?OEF (che coincide con la necessità degli USA di impegnarsi in altri paesi). La guida politica dell?ISAF è esercitata dal NAC, North Atlantic Council della NATO. Dal Comando ISAF dipendono il reparto per la gestione dell?aeroporto di Kabul e ora anche i nove Provincial Reconstruction Teams dell?area Nord e Ovest dell?Afghanistan. All?insieme delle operazioni partecipano militari di 35 paesi. Oltre alla nuova espansione nell?area Sud, è programmata per la fine del 2006 quella nell?area Est. Nella rotazione dei comandi NATO, l?italiano gen. Del Vecchio assume la guida dell?ISAF, dal 4.8.05 al 4.5.06 (nel 2005 spetta all?Italia anche il comando di altre tre operazioni multinazionali militari: Bosnia, Kosovo e Albania). I militari italiani impegnati nell?ISAF sono: un migliaio a Kabul; circa 400 a Herat; 90 ad Abu Dhabi. Dal 31.3.05 l?Italia svolge il ruolo leader per l?area Ovest, con capoluogo Herat, e ad un generale italiano è affidato l?incarico di Regional Command West (per le province di Herat, Farah, Chaghcharan, Qaleh-Ye Now). ? Rimangono quindi, in modo parallelo, talvolta sovrapposto, sempre fortemente coordinato, le due missioni: una basata sul diritto all?autodifesa riconosciuto dall?art. 51 della Carta delle NU e successivamente legittimata da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza; l?altra concordata a Bonn nel dicembre 2001 tra NU, Governi e Istituzioni internazionali, Autorità afgane rappresentative e deliberata da una previa risoluzione, n. 1386, del Consiglio di Sicurezza. ? Si sarebbe potuto immaginare che, con un nuovo chiaro e condiviso mandato delle Nazioni Unite, l?avvio dell?ISAF avrebbe inglobato anche la preesistente OEF, rafforzando così il carattere multilaterale e concordato della presenza militare internazionale in Afghanistan con la necessaria e doverosa trasparenza politica. Così non è stato, data la priorità al mantenimento dell?opzione unilaterale dell?Amministrazione americana e alle ?mani libere? sulla guerra al terrorismo. Si è dato così avvio ad una situazione di ambiguità e di confusione anche agli occhi degli afgani che pesa gravemente sull?ISAF: essa viene vissuta come un tutt?uno con l?OEF, acquisendone anche l?ostilità maturata. ? Un?operazione militare avviata in base all?art. 51 della Carta delle NU dovrebbe essere temporanea e comunque durare ?fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale?. Con gli accordi di Bonn, basati sul consenso di tutte le parti, e con la relativa risoluzione 1386 del Consiglio di Sicurezza che autorizza il dispiegamento dell?ISAF, le ?misure necessarie? per quanto riguarda l?Afghanistan sono state messe in atto. Ma, ancora una volta, la risoluzione del Consiglio di Sicurezza non è stata presa nella dovuta considerazione. ? Sarebbe opportuno che, partendo da questo dato che può compromettere, se non l?ha già compromesso, il raggiungimento degli obiettivi dell?ISAF, il Governo italiano provveda in sede NATO nei prossimi mesi ad un?attenta valutazione della situazione, dei risultati raggiunti e degli insuccessi, portando estrema chiarezza sulle finalità della presenza militare a supporto e rafforzamento delle Istituzioni afgane centrali e periferiche, sugli obiettivi generali e per provincia, sugli strumenti e mezzi da impiegare, sulle modalità operative, sui sistemi di comando e di guida politica della missione, sulle strategie da adottare. Esigendo chiarezza. ? Procedere solo per dovere di alleanza, in una probabile escalation militare ?di contrattacco e di difesa? che potrebbe non avere limiti prevedibili, piuttosto che nella realizzazione di una strategia multilaterale, partecipata, condivisa dagli afgani e realizzata con gli afgani, dotata dei mezzi necessari ed adeguati alla difficilissima realtà potrebbe portare ad una dolorosa e catastrofica fine. A pagarne le conseguenze sarebbe, ancora una volta e prima di tutti, la popolazione afgana. 2. I PRT, PROVINCIAL RECONSTRUCTION TEAMS a) I PRT, una parte preminente dell?azione della NATO/ISAF in Afghanistan Deciso l?ampliamento della presenza sul territorio afgano, nel gennaio 2004 l?ISAF inizia ad inglobare e gestire sotto il proprio comando i PRT, Provincial Reconstruction Teams avviati dall?OEF. Si tratta di squadre operative che vengono presentate come ?composte da personale internazionale civile e militare che opera al fine di estendere sul territorio l?autorità del Governo afgano e di facilitare lo sviluppo e la ricostruzione?. L?8.12.05 la NATO decide un nuovo significativo incremento del ruolo dell?ISAF con l?avvio di nuovi PRT in sei province del sud che andranno ad aggiungersi a quelli già operativi nelle province settentrionali e occidentali. Le truppe NATO passeranno al contempo da 9.000 a 15.000. L?allargamento nel sud significa anche operare ?rafforzando il coordinamento con la struttura di comando e controllo delle Forze della Coalizione OEF? (come evidenziato anche nella relazione del Segretario Generale delle NU, il 7.3.06), operative nell?area fin dall?inizio dell?operazione. Continua la confusione/sovrapposizione tra le due missioni militari. b) Scopi e composizione dei PRT Stando a quanto affermato nei documenti ufficiali, i PRT sono una struttura operativa sotto il Comando ISAF/NATO con alcuni scopi primari: – estendere l?influenza del governo centrale a livello provinciale; – fornire assistenza e aiuto alle strutture di sicurezza dell?Amministrazione e al disarmo; – fornire ed addestrare l?esercito e le forze di polizia locali; – fornire un ambiente sicuro per le organizzazioni e le attività umanitarie; – facilitare lo scambio di informazioni e sostenere le campagne mediatiche; – sviluppare progetti di ricostruzione identificati in consultazione con le autorità locali. Sempre secondo i documenti ufficiali, il PRT è una struttura mista composta da unità militari e civili con il compito di concorrere al processo di espansione della NATO in Afghanistan al fine della progressiva stabilizzazione del paese, assicurando il supporto alle attività di ricostruzione condotte dalle organizzazioni nazionali ed internazionali operanti nella regione. Ogni PRT è strutturato in base al rischio, alla posizione geografica e alle condizioni socio economiche della regione in cui opera e la sua composizione è normalmente di 100-250 persone. È affiancato da una Forword Support Base, FSB, necessaria per fornire il supporto operativo e logistico. Nei centri regionali si tratta di una installazione militare aeroportuale avanzata per: – assicurare il sostegno logistico regionale dei PRT, – ospitare una infrastruttura medico-sanitaria idonea a soddisfare anche le esigenza sanitarie dei PRT presenti nella stessa area, – ospitare una compagnia di ?Forza di reazione rapida? d?area con propri elicotteri di supporto, – assicurare il supporto logistico al Comando regionale, – ospitare gli elementi nazionali di supporto. Il PRT rimane con una identità politica ambigua: un po? forza di combattimento, un po? forza di stabilizzazione, un po? forza di ricostruzione. Ambiguità che può anche essere tradotta con: né forza di combattimento, né forza di stabilizzazione, né, ovviamente, forza di ricostruzione. Che cosa dunque? c) Il PRT di Herat Un caso concreto come quello di Herat ci può fare comprendere meglio l?effettiva realtà dei PRT. Essa non corrisponde esattamente a quanto viene presentato dai media e dall?informazione ufficiale. Non abbiamo a disposizione i dati aggiornati e sarà inevitabile qualche errore nei dettagli, anche perché la nostra è una lettura esterna. Ma riteniamo che tali errori non incidano su quanto si cercherà di evidenziare. Se da un lato non possiamo che apprezzare lo spirito di non pochi militari italiani a Herat che esprimono generosità e impegno verso gli afgani con cui riescono a venire in contatto, dall?altro ci sembra importante, oltre che doveroso, sottolineare i problemi ? gravi ? che i PRT stanno provocando. I 400 militari italiani sotto il Comando Ovest sono così suddivisi: 30 nel Comando regionale; 180 nell? FSB, base a carattere multinazionale a leadership spagnola; 190 nel PRT, anch?esso a carattere multinazionale. In realtà il PRT non comprende civili per le attività di ricostruzione. Le attività dei sei tecnici della Cooperazione Italiana sono totalmente indipendenti da quelle del PRT, anche se essi sono ospitati presso la base militare per ragioni di sicurezza e sono scortati negli spostamenti programmati. Rimane comunque, anche per la Cooperazione italiana, la stessa ambiguità della concomitanza e la confusione che evidenziamo nei punti successivi, che dovrebbero suggerire altre modalità, magari in un confronto attento con le Ong. La componente civile del PRT in verità non è riferita alla sua composizione ma a quella parte di attività che nella NATO va sotto il nome di CIMIC, cooperazione civile-militare. Si tratta dello sviluppo di una nuova strategia dovuta al cambiamento dei teatri operativi della NATO nei nuovi contesti internazionali di crisi. Strategia che viene attuata tramite e con il supporto di una nuova struttura di comando, il CIMIC. L?interazione tra le forze alleate e il contesto civile governativo e non governativo nel quale si opera è considerata infatti cruciale per il successo delle operazioni militari. Queste hanno quindi l?esigenza di coordinare le attività con i governi nazionali e locali e con le organizzazioni internazionali e non governative presenti nella stessa area. La struttura CIMIC è: ?il coordinamento e la cooperazione, a sostegno della missione, tra il Comando NATO ai vari livelli e gli attori civili, inclusi la popolazione e le autorità locali, le organizzazioni e agenzie internazionali e nazionali, le organizzazioni non governative (Ong)?. Non è quindi la ?componente civile? del PRT che svolge le attività di ricostruzione degli ambulatori, scuole, ospedali, pozzi, sistemi di distribuzione idrica? , cosa di per sé già problematica dal punto di vista della fedeltà ai principi umanitari, ma sono gli stessi militari della struttura CIMIC a farlo, in relazione con le Autorità civili locali. Si tratta, è bene notarlo, delle stesse attività da sempre e ovunque realizzate dalla cooperazione civile, sia governativa che non governativa: a costi indubbiamente inferiori e con un rapporto con le popolazioni più trasparente. Da qui nasce l?ambiguità e la confusione che le ONG umanitarie hanno denunciato e continuano a denunciare, fino ad esprimere gesti estremi come decidere di rinunciare a svolgere attività nei paesi o nelle aree in cui operano i PRT. 3. LE ONG DI FRONTE AI PRT I PRT pretendono di ?operare in aree isolate, difficili, dove le Ong normalmente non sono presenti, allo scopo di creare un ambiente più sicuro che incoraggi l?espansione delle loro attività in quelle aree?. Si tratta di un?intenzione lodevole da parte dei militari ma che non tiene conto della realtà, che è del tutto opposta. Le Ong da sempre sono presenti nelle aree più difficili e isolate, godendo della tutela delle popolazioni con cui vivono stabilendo un rapporto di partnership. Solo in casi particolari, ben definiti nello spazio e nel tempo, come è stato per es. nei recenti anni in alcune aree del Congo, può essere utile la tutela delle popolazioni e degli operatori umanitari da parte delle forze di interposizione. Le Ong devono in ogni caso salvaguardare la loro autonomia, indipendenza, neutralità umanitaria e lì dove non c?è chiarezza, dove non c?è severa distinzione tra i compiti, gli spazi, le attività dei militari e quelle delle Ong, lì dove la sfera umanitaria viene inquinata da strumentalizzazioni ed è subalterna ad altre finalità, allora le organizzazioni non governative si sentono obbligate a prendere le distanze, fino ad allontanarsi da tali contesti. È il caso dei PRT, il cui scopo è quello di estendere l?influenza della NATO nella propria area, usando strumentalmente e subordinatamente le ?attività umanitarie?. Capita perfino che in alcune aree dell?Afghanistan i militari si presentino alle popolazioni in abiti civili e su automezzi non identificabili come militari. Si presentano cioè come operatori umanitari, falsando così e inquinando la sfera dell?azione e dei principi umanitari. Le organizzazioni non governative a livello internazionale hanno posizioni differenziate sul rapporto con i PRT. Dal totale rifiuto di ogni relazione, all?atteggiamento pragmatico, alla collaborazione (in particolare qualche Ong americana con debole senso della propria autonomia). Le più presenti nei contesti di crisi non si sono comunque limitate a porre il problema e a denunciarne gli effetti perversi ma, a fianco delle critiche, hanno suggerito raccomandazioni per un ripensamento dei PRT al fine di salvaguardare i principi umanitari e il rispetto della sfera umanitaria. Ne citiamo alcune. ? La prima richiede che ogni soggetto svolga le proprie specifiche attività, quelle per cui è preparato e formato (?ognuno faccia il proprio mestiere seguendo la propria mission?), senza ambiguità e confusioni di ruoli e evitando sprechi e danni irreparabili. I militari dei PRT devono focalizzare la propria presenza e attività, con risorse e mezzi adeguati, sul loro mandato specifico: garantire la sicurezza alle popolazioni, allo sviluppo del processo istituzionale ed alle attività delle amministrazioni locali. Dato il grave deterioramento della sicurezza in Afghanistan, questa raccomandazione andrebbe presa in seria considerazione. ? Se i PRT fossero chiamati a svolgere attività di ricostruzione (cosa non auspicabile) devono indirizzarsi su progetti infrastrutturali di ampia portata a sostegno delle amministrazioni provinciali e non su iniziative che sono da sempre nell?ambito degli interventi umanitari quali la salute, l?educazione, l?acqua, la nutrizione. Le Ong hanno sperimentato sulla propria pelle che le ?attività umanitarie? condotte dai PRT hanno portato all?erosione della sicurezza delle organizzazioni umanitarie, perché viste in una sovrapposizione con i militari e rapidamente confuse con loro. ? Sarebbe comunque auspicabile che, pur nella distinzione dei ruoli e delle posizioni, vi sia un?apertura di dialogo sull?attività del PRT con le amministrazioni pubbliche e comunità locali (che vanno sempre coinvolte e responsabilizzate), le organizzazioni internazionali e Ong. Forse, l?ascolto dei diversi attori sul territorio potrebbe giovare a svolgere meglio il proprio mandato evitando rischiose sbavature. Le Organizzazioni umanitarie, multilaterali e non governative, hanno prodotto ormai una preziosa serie di analisi, valutazioni e proposte sul rapporto civile-militare. In Italia non c?è ancora stato un serio approfondimento, se non tra pochi addetti ai lavori. È giunto il tempo che istituzioni governative, politici, Difesa e Ong affrontino con serietà questo tema che riguarda l?attualità ma riguarderà probabilmente, e forse maggiormente, il prossimo futuro. 4. LE ONG E IL RAPPORTO CON I MILITARI Pur essendo severamente contro la guerra e l?uso della forza come strumento per la soluzione dei conflitti internazionali, INTERSOS non rifiuta a priori la collaborazione con le Forze armate ove questa possa essere necessaria alla salvezza e alla protezione delle popolazioni. Lo dimostra la nostra esperienza in paesi come la Somalia, la Bosnia, il Mozambico, il Kosovo, il Pakistan ed altri in occasione di catastrofi naturali o di interventi di mantenimento della pace sulla base di accordi internazionali. Condividiamo la recente richiesta di alcune grandi Ong umanitarie di una presenza armata di interposizione delle Nazioni Unite per la tutela delle popolazioni del Darfur. Per potere avviare forme di collaborazione alcune condizioni vanno però rispettate. Tre in particolare: 1) deve trattarsi di presenza militare legittimata dal diritto internazionale, dalle Istituzioni multilaterali e, preferibilmente, da accordi tra le parti in conflitto; 2) devono essere sempre chiare, riconoscibili e inconfondibili le diverse identità e specificità, quella umanitaria e quella militare; 3) l?eventuale richiesta di supporto delle Forze armate alle operazioni umanitarie in situazioni di reale necessità per le popolazioni o per l?apertura di corridoi umanitari deve derivare sempre dall?iniziativa autonoma e indipendente delle Ong e delle Agenzie umanitarie internazionali, sulla base della particolarità della situazione e mai da diverse decisioni o da finalità di ordine politico o militare. Forme di collaborazione tra civili e militari che non garantiscano pienamente questi principi non possono essere prese in considerazione. Invitate a realizzare interventi umanitari e di ricostruzione a Herat, le Ong italiane hanno risposto negativamente non sussistendo le condizioni sopra menzionate. Continuano invece ad operare in varie altre province afgane, senza alcun altra difesa che quella che deriva loro dal rapporto di fiducia costruito con le autorità e la popolazione locale. Più in generale, è bene che ogni attività di cooperazione allo sviluppo, di ricostruzione e di aiuto umanitario sia lasciata in mano ai civili, siano essi operatori pubblici, delle agenzie multilaterali, delle Ong. Cooperazione significa partnership, lavorare con, crescere insieme, talvolta per periodi lunghi. L?aiuto umanitario, in particolare, è per le Ong un imperativo e, al tempo stesso, per le popolazioni in pericolo un diritto. Imperativo umanitario e diritto all?aiuto che mai una Forza armata, con altre finalità istituzionali, può assumere in prima persona secondo i propri criteri e le proprie scelte. Per non parlare dei costi. Forse è bene interrogarsi su quanto possano costare, in realtà, le scuole ricostruite da un PRT composto da 200 persone dotate di mezzi e di logistica poderosi. Anche su questi punti la chiarezza, fuori da ogni propaganda, è d?obbligo.


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