Non profit

Iraq: tre questioni su cui rispondere

Nella vicenda irachena si fondono tutti gli elementi critici che se non vengono opportunamente affrontati, saranno fatali per ogni politica estera italiana ed europea

di Riccardo Bonacina

Con Alessandro Pibiri, 25 anni, del 152° reggimento fanteria Sassari, la scia di sangue e di dolore italiano in Iraq, iniziata con la strage di Nassiriya la mattina del 12 novembre 2003, conta ormai 38 caduti: 31 militari e sette civili. Una scia di dolore e di sangue che dovrebbe convincere, o costringere, tutti, per rispetto e pudore, ad uscire dai teatrini della politica e del proprio, piccolo o grande, tornaconto. Il teatrino che oggi fa dire a D?Alema e a Prodi che i nostri militari sono «impegnati in una missione di pace», dopo che negli ultimi anni hanno sostenuto che la presenza militare italiana era una forza di occupazione «impegnata in azioni di guerra» (D?Alema in Parlamento il 15 febbraio 2005 e Prodi alle agenzie l?8 febbraio 2005). Lo stesso teatrino che fa dire a qualche pacifista che l?Iraq ha bisogno di progetti umanitari e non di militari, quando è chiaro a tutti che in Iraq qualsiasi azione civile senza una robusta presenza militare è da tempo impossibile. Il rispetto per coloro che a Nassiriya (o in Afghanistan) hanno perso la vita dovrebbe spingere tutti, politici e umanitari, ad avere il coraggio e la serietà di porre le questioni di sostanza, inaugurando un vero dibattito. Ma per farlo, bisognerebbe riconoscere che dal Kosovo in poi l?integrazione dell?azione civile nei piani operativi militari è diventato un fenomeno (o una malattia) che sembra ormai irreversibile. La guerra al terrorismo inaugurata, dopo l?11settembre 2001, con l?azione in Afghanistan, ha ulteriormente cementato il connubio tra interventi civili e militari. Il caso della guerra in Iraq, poi, è esemplare, perché ci ha mostrato in tutta la sua ampiezza lo stato di vulnerabilità del sistema umanitario di fronte all?incertezza del quadro politico mondiale e alle minacce per la sicurezza. Nella vicenda irachena si fondono tutti gli elementi critici: donatori che diventano belligeranti, scontro tra governi e ong, competizione con le imprese, aiuto vincolato, impotenza dell?Onu, violazioni del diritto umanitario, insicurezza, miopia politica degli umanitari. Alcuni di questi problemi, se non opportunamente affrontati, saranno fatali per ogni politica estera italiana ed europea. Ne sottolineo tre. 1) Innanzitutto, la cooptazione della causa umanitaria tra gli obiettivi della guerra, che è causa di un pericoloso confondersi di interessi umanitari e bellici. 2) Le ong, dopo Somalia, Afghanistan e Iraq rifletteranno più attentamente prima di intervenire in crisi tanto politicizzate? 3) Il bisogno di maggiore chiarezza di ruoli sul terreno. Tutti hanno il dovere di contribuire allo sforzo umanitario e nessuno ne ha l?esclusiva, ma la tendenza delle forze militari a presentarsi come ?organizzazioni umanitarie?, se aiuta la comunicazione mediatica, crea una pesante distorsione e una pericolosa confusione, negativa per la credibilità e sicurezza di tutti. Invece di nascondersi dietro le bugie o dibattiti inutili sul ritiro dall?Iraq (subito, tra un mese o sei?), qualcuno, tra i politici e tra gli umanitari, avrà il coraggio di mettere a tema queste questioni? Se l?Italia e l?Europa vorranno continuare a giocare un ruolo internazionale dovranno provare a ripensare i rapporti tra civili e militari. Politici, teorici e umanitari si metteranno al lavoro insieme? O dovremmo continuare a piangere morti ?inutili? o ?necessarie? a seconda della convenienza politica o economica?


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