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Non profit football club

«Cedere totalmente alla logica del profitto è stato un grande errore». Pierluigi Sacco traccia la sua diagnosi del male che affligge lo sport più amato

di Francesco Maggio

Incomprimibili. «Ci sono ambiti della vita sociale, civile, economica che non possono mai essere ?compressi? del tutto dalla logica del profitto, né ?tutelati? esclusivamente dal settore pubblico. Sono gli spazi che appartengono alla società civile, alla cittadinanza. Il calcio è uno di questi, ma purtroppo in tanti se lo sono dimenticato o, peggio ancora, non lo hanno mai saputo. Era quindi inevitabile che prima o poi i nodi arrivassero al pettine». Pierluigi Sacco, ordinario di Economia della cultura allo Iuav di Venezia, tra i massimi conoscitori delle dinamiche senza fine di lucro, è impietoso nella diagnosi: «Non c?è nulla di male a trasformare in lucrativa una società sportiva. Negli Stati Uniti, per esempio, può accadere che le squadre di football cambino città per obbedire agli interessi di chi controlla il loro pacchetto azionario di maggioranza. Ma si tratta di una cultura diversa dalla nostra. Da noi», spiega, «il calcio risponde a una vera e propria esigenza di razionalità espressiva, non è solo intrattenimento. Le persone costruiscono la propria identità anche in rapporto alla propria squadra di calcio. Cedere, quindi, a una logica di esclusivo orientamento al profitto produce un conflitto, anche identitario, insanabile, si mortifica la credibilità sociale di un fenomeno che fa perno sulla circostanza che le regole del gioco siano eque e trasparenti». Vita: Per lei sembra tutto così scontato. Ma allora perché si è prodotto nel 1996 questo vulnus? Pierluigi Sacco: Perché l?Italia nella seconda metà degli anni 90 è stata attraversata dal mito della managerializzazione, sembrava che qualunque forma organizzativa che potesse favorire una maggiore cultura manageriale fosse, ipso facto, giusta. Ed è stato un grande errore, anche perché non c?è nessuna incompatibilità tra managerialità e non profit. Anzi, per certi versi, proprio quando è facilmente intuibile che possano esserci forti pressioni esterne, è più agevole sviluppare una managerialità non profit piuttosto che profit. Vita: Fatto sta che la scelta di passare al profit ha messo in luce la diffusa ignoranza, in primis del legislatore, circa le peculiarità non profit dell?associazionismo sportivo italiano… Sacco: È vero, purtroppo. Il nostro sport dovrebbe avere una filiera ideale che va dallo sport dilettantistico a quello professionistico e che, comunque, non separi mai del tutto due mondi completamente diversi. Lo sport non professionistico non è solo un vivaio di talenti sportivi ma è anche il terreno di cultura ideale di coloro che poi divengono pubblico. La qualità del nostro tifo dipende dalla qualità associativa del nostro sport. È stato un fallimento di visione non tenere in giusta considerazione gli aspetti di sostenibilità sociale dello sport. Abbiamo pensato alla sostenibilità economica delle squadre di calcio, peraltro in modo miope, ma non abbiamo pensato alla loro sostenibilità sociale, a creare le condizioni che permettano a questo sistema di autoperpetrarsi nelle sue logiche costitutive indiscutibili: la trasparenza e la lealtà, nel rispetto delle regole del gioco. Vita: Insomma, tutto è perduto? Sacco: Direi proprio di no. Il fatto stesso che gli italiani abbiano reagito con maggior sdegno rispetto a scandali come, per esempio, quello dei bond argentini vuol dire che l?etica sportiva, anche per una società italiana così apparentemente disincantata, è ancora importantissima. Per questo sono fiducioso: o lo sport si rifonde dal basso o non si rifonde affatto. Vita: Mi perdoni il verbo: come il non profit potrebbe ?cavalcare? a suo favore questo frangente? Sacco: Rivendicando innanzitutto un?attenzione generale più alta su quello che fa l?associazionismo sportivo, vissuto oggi, invece, come la copia in piccolo del professionismo. Basti pensare alle aberrazioni legate alle ambizioni di certi genitori che cercano di programmare le carriere sportive dei propri figli. E poi dovrebbe giocare d?anticipo, proponendo un ?suo? modello sostenibile di governance delle società sportive.


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