Mondo

La cura del buon senso

«Il cardinale ha fatto centro. Nella lotta all’Aids bisogna evitare gli integralismi, da un lato e dall’altro». Parola di un medico in prima linea

di Emanuela Citterio

Le parole del cardinal Martini? Puro buon senso. «Finalmente una posizione equilibrata…». Dominique Corti, medico, vive a Milano, la città dell?impegno pastorale di Martini. Ma è nata a Gulu, in Uganda. I suoi genitori, il cardinale li conosceva bene: Lucille e Piero Corti, entrambi medici, in quarant?anni di lavoro e vita in Uganda hanno trasformato un dispensario missionario disperso nella savana in uno degli ospedali migliori del paese. Oggi, scomparsi i fondatori, è un centro di riferimento per la lotta all?Aids candidato alla futura sperimentazione del vaccino. È pensando a quella realtà che la Corti commenta l?intervista rilasciata all?Espresso, in cui il cardinal Martini, rispetto alla diffusione dell?Aids in Africa, ha detto che «l?uso del profilattico può costituire in certe situazioni un male minore» e ha sottolineato la necessità di valutare le «diverse situazioni locali» e, da parte della Chiesa, di non rinunciare alle altre forme di prevenzione, che puntano sull?educazione e l?informazione. «L?accenno alla necessità di integrare i diversi approcci è fondamentale», dice la Corti, presidente della Fondazione Piero e Lucille Corti, che continua a sostenere l?ospedale Lacor di Gulu. «Il ragionamento è di buon senso, anche se si considerano solo gli aspetti tecnici della questione. Il preservativo è uno dei mezzi di prevenzione, ma se resta l?unico diventa controproducente. Per funzionare deve essere accompagnato da una serie di condizioni, che in Africa non sono scontate: deve essere conservato correttamente, utilizzato in modo perfetto, e deve esserci un rifornimento continuo e adeguato. Se manca uno di questi requisiti è del tutto inefficace». La realtà di Gulu è un esempio calzante. «È una zona rurale», spiega, «dove la maggior parte della gente vive al di sotto della soglia della povertà assoluta. Nessuno può permettersi di comprare preservativi, e garantire una distribuzione adeguata in queste zone è praticamente impossibile. Poi ci sono le resistenze sociali e culturali, perché sono ancora in molti a pensare che il preservativo diminuisca la fertilità. Le discussioni fatte in Europa o negli Usa laggiù suonano astratte. A Gulu i risultati migliori sono stati ottenuti con l?informazione e l?educazione. Nel 1993 il 30% delle donne che frequentava il nostro ambulatorio era sieropositivo, oggi la percentuale è scesa all?11». In Uganda le politiche statali hanno portato risultati importanti sul fronte della riduzione del contagio: «Il governo ha aggredito la diffusione del virus con una massiccia campagna di informazione, partita alla fine degli anni 80», spiega Dominique Corti. «Ma i preservativi sono arrivati solo nei grandi agglomerati urbani». Ecco allora perché ha ragione Martini: bisogna, secondo la Corti, integrare i diversi approcci, evitando gli integralismi: quello dei fautori del preservativo come panacea e quello di chi predica l?astinenza, «come fanno alcuni gruppi finanziati dagli Stati Uniti in Uganda. Improponibile».


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