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Matteo e i ragazzi né carne né pesce

Sono tanti i perché del suicidio di Matteo, il ragazzo di Torino, che si è buttato dalla finestra il 3 aprile scorso ed è stato sepolto in una giornata di gran sole...

di Riccardo Bonacina

In questo Paese succede che il suicidio di uno studente non ancora 16enne non solo non fermi il teatrino della politica, ma che addirittura lo ravvivi. Così, le migliore intelligenze della cultura e della politica, di fronte alla vicenda di Matteo, figlio di madre filippina e padre italiano, che la mattina dello scorso 5 aprile a Torino si è buttato dal quarto piano dell?Istituto tecnico Sommellier, si sono arrovellate su domande inutili quando non ridicole. Evitando una volta di più di fare i conti con la realtà. Una sequenza di domande sceme ci hanno inseguito per almeno una settimana. È colpa del bullismo, o dell?omofobia? Ha più responsabilità la scuola che non sa tenere a bada gli studenti, o certi genitori che non sanno educare i figli? Colpa dei vescovi e delle loro invettive o del centrosinistra e del suo lassismo morale?

Anche di fronte a Matteo e al suo dolore si sono branditi i soliti ?arnesi? dello scontro politico, senza cercare di capire il disagio di un ragazzo italiano con la faccia da filippino e con un carattere timido e gentile (?Jonathan il gay?, lo chiamavano così, come uno dei protagonisti del Grande fratello). Un disagio, il suo, probabilmente non molto diverso da quello di tanti ragazzi che «da figli diventano immigrati», come ha scritto un utente di secondegenerazioni.it (il blog dell?associazione G2), spiegando: «È una metafora cruda ma che stiamo verificando sulla nostra pelle».

Matteo, italianissimo, è diventato immigrato ?da figlio?, così come capita a centinaia di migliaia di ragazzi che frequentano le nostre scuole (sono quasi mezzo milione i figli di immigrati nelle nostre scuole in rappresentanza di 191 nazionalità). Ragazzi «né carne né pesce» come scrive una ragazza d?origine etiope: «È solo verso i 21 anni che ho cominciato a comprendere il senso delle parole che mia nonna mi ripeteva da bambina:
?Cerca di diventare qualcosa per non essere né carne né pesce?. Per una qualsiasi altra bambina italiana queste parole non avrebbero avuto un significato particolare se non quello di diventare grande. Per me, invece, divisa tra una natalità italiana e una faccia scura, che parlava di una terra lontana, la frase da lei pronunciata voleva dire molto di più. Sentivo di avere una possibilità tra la carne e il pesce: essere uovo. Un qualcosa che è in sé la radice di entrambi ma allo stesso tempo non ancora né l?uno né l?altro. Per tutto il periodo che avevo vissuto con lei e mio ?nonno?, assieme a mia mamma, ero stata la ragazzina di origine etiope che si sentiva bianca, perché tutto intorno a lei era bianco e italiano. Dopo di lei, sono diventata ?una ragazza bianca? che si sentiva nera perché tutto intorno a lei era diventato scuro. Oggi, credo di essere entrambe le cose e nessuna delle due. Essere figli di immigrati, nella società italiana, e per di più ?di colore?, non è né facile né difficile, è semplicemente una realtà nuova ed indefinibile. Siamo italiani, ma le nostre fattezze si presentano ancor prima delle parole, smentendo a primo impatto qualsiasi appartenenza a questo Paese. Allo stesso tempo, quando ci affacciamo alle comunità di origine, la conoscenza frammentaria della cultura e della lingua ci allontana anche da loro».

«Né carne né pesce», Matteo si deve essere sentito così, schiacciato da quei termini che usiamo come epiteti: «immigrato» o «straniero». Lui era semplicemente un italiano, anche se la sua faccia sembrava smentire quest?appartenenza. L?idea di uniformità etnica, linguistica e religiosa che ha alimentato nei secoli scorsi l?idea di nazione è in crisi irreversibile. Matteo ci spiega anche questo. Siamo alla vigilia di una nuova legge sull?immigrazione. Darà spazio, diritti e cittadinanza alle seconde generazioni?


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