Formazione

Il nostro “avviso” a don Elvio: sei tu l’uomo dell’anno

Il direttore della Caritas si racconta: dall’incontro con don Calabria ai vent’anni da cappellano a Poggioreale, la storia di un uomo che aveva convinto decine di camorristi a deporre le armi

di Cristina Giudici

C?è chi ha scelto Massimo D?Alema, chi Antonio Fazio, chi invece ha preferito un architetto famoso o l?ultimo campione di incassi al botteghino di Natale. Come capita ogni volta in questo periodo, quotidiani e settimanali eleggono l??uomo dell?anno?. Una figura rappresentativa dei dodici mesi passati e che dia una sorta di indirizzo a quelli futuri. Anche noi di ?Vita? l?abbiamo fatto, senza però decidere la lista dei papabili al chiuso della redazione: abbiamo chiesto invece a un campione di mille volontari e operatori del Terzo settore (membri di associazioni, di ong, soci di cooperative sociali) di indicarci il loro ?uomo dell?anno?. Senza suggerimenti, senza griglie predefinite, in assoluta libertà. Ne sono usciti, com?era prevedibile, moltissimi nomi (basti pensare che i personaggi che hanno preso più di un voto a testa sono stati una cinquantina), da cui abbiamo estratto i dieci più segnalati. Vincitore è risutato, a sorpresa, don Elvio Damoli, colpito da un avviso di garanzia proprio nei giorni in cui abbiamo realizzato il nostro giro di opinioni, poco prima di Natale.
Don Elvio ha ricevuto 122 voti, gli altri qualcuno di meno, ma per noi sono si sono classificati tutti a pari merito. Ve li presentiamo in queste pagine, subito dopo l?intervista al direttore della Caritas e al commento di monsignor Riboldi. Per i volontari, il 1998 senza di loro sarebbe stato senz?altro peggiore.

Non è successo niente. Almeno a giudicare dall?espressione del volto, serena come un cielo dopo un temporale. O dai modi sinceri e umili da prete di strada, abituato a toccare e condividere il dolore degli uomini, gli ultimi fra gli ultimi. Il telefono continua a squillare, nella casa di via Palombini, a Roma, per portare saluti, auguri per l?imminente viaggio in Angola e messaggi di solidarietà. Don Elvio Damoli, direttore della Caritas nazionale, giovedì 17 dicembre è stato raggiunto da un avviso di garanzia. L?accusa riguarda l?omessa presentazione della dichiarazione d?imposta dal 1995 al 1998 della fondazione ?Realizzare la Speranza? di cui lui è stato, però, direttore solo fino al marzo del 1996. Una settimana dopo, i volontari interpellati da un sondaggio di ?Vita? l?hanno eletto uomo dell?anno. Forse anche per il desiderio di esprimere solidarietà a un uomo che per vent?anni ha animato il cuore della solidarietà partenopea: in carcere con i detenuti, nelle strade con i senza casa, nelle case alloggio con i malati di Aids, in Irpinia con i terremotati. La notizia conforta don Elvio, che prova a raccontarsi.

«Quando sono stato avvisato del mandato di perquisizione, ero in visita al carcere di Secondigliano. Mi trovavo nel posto giusto al momento giusto», scherza Damoli, che il carcere lo conosce bene. Sì, perché l?avventura della sua vita si è svolta soprattutto in carcere, a Poggioreale, dove è stato per vent?anni cappellano. Lì ha capito la miseria e la grandezza dell?essere umano che si piega, cade e poi cerca di rialzarsi per riprovare a vivere. Lì ha vinto e perso le scommesse più grandi, etiche e sociali ma forse anche politiche. Lì ha capito l?infinita complessità dell?uomo e i meccanismi contorti della burocrazia, inaugurando anche un?epoca: quella del volontariato penitenziario. «A Poggioreale sono arrivato nel ?72», racconta. «Ricordo i cancelli che cigolavano, il rumore dei chiavistelli, il silenzio. Allora c?erano 3500 detenuti, una città nella città. In vent?anni ho visto passare molte generazioni: la vecchia camorra, quella che aveva una sua ?etica? che le proibiva di toccare donne e bambini, e la camorra nuova, governata da tante ?famiglie?, come si chiamano impropriamente, dall?odio e dalla violenza. E poi ho visto passare tanti figli della disgrazia, reclutati come bassa manovalanza della criminalità, i tossicodipendenti, i ladruncoli. Lì ho scoperto quante cose meravigliose cela l?animo umano dietro le tragedie. I detenuti non mi trattavano come un prete cui confessare i peccati, ma come un cuore che li sapeva ascoltare. In carcere formai il primo gruppo di volontariato, una sorta di ponte con il mondo esterno. Per ogni volontario che entrava in carcere, cinque lavoravano nei quartieri da cui provenivano i detenuti. Solo capendo da dove venivano potevamo fare qualcosa per loro. Uno dei miei primi collaboratori è stato Alfredo Paolella, poi ucciso dalle Br. A me non interessavano i reati commessi dai detenuti, ma la loro storia, tentare insieme la via del recupero, il riscatto sociale. Molti detenuti poi sono diventati volontari anche perché lì dentro un uomo tira fuori il meglio di sé. Le lunghe attese e i silenzi fanno nascere sentimenti. Ecco perché molti sono poeti o artisti».

La storia di don Elvio, che lui racconta in modo scanzonato, come se nonostante i 66 anni (è nato nel ?32 a Negrar-Verona) fosse ancora un ragazzino ribelle che assilla il mondo con i suoi perché, è la storia di una vocazione, religiosa, ma anche di un uomo che non ha mai voluto credere che il mondo si divide fra buoni e cattivi, perdenti e vincenti, fra chi ha ragione sempre e chi per forza ha torto. Così quando si laureò a Ferrara in teologia e divenne educatore in un istituto minorile per ragazzi poveri e orfani, un episodio cambiò la sua vita. Un ragazzino, «un mascalzone», ricorda, «si era comportato molto male. Lo rimproverai aspramente e il ragazzo mi disse con rabbia: ?Se tu avessi avuto la famiglia che ho avuto io, saresti come me?. Mi sentii male capii che aveva ragione. Che diritto avevo di giudicare? Ecco, quell?episodio mi ha portato a finire in carcere, dove i fatti e le ragioni hanno infinite sfumature».

Ma l?incontro decisivo è stato quello col carisma di don Giovanni Calabria, che gli ha insegnato la dottrina della Chiesa dei poveri e una carità cristiana intesa non come beneficenza o assistenza, ma come occasione di sviluppo. «Se non avessi incontrato don Calabria, forse non sarei prete. Mi ha educato alla mondialità e alla globalità della pace, anticipando il Vaticano II, la Chiesa dei poveri, la tolleranza delle diverse religioni. Don Calabria è il mio ideale di vita».

E così don Elvio ha intrapreso la strada della solidarietà. A fine ?79 il cardinal Corrado Ursi lo ha voluto a Napoli come direttore della Caritas, e ha scoperto così una città generosa dove fondare cooperative di ex detenuti che restauravano monumenti, portare fuori gli ex malati di mente dagli Opg, creare case-famiglie per malati di Aids, costruire una rete di volontari per i terremotati in Irpinia. Nell?inverno ?91-?92 Damoli ha mobilitato la città per difendere dal gelo i barboni. «Era l? ?operazione fratello freddo?. Parteciparono in tanti. Con camion, vetture, coperte. Nella stazione ferroviaria, con carrozze dismesse, istituimmo un centro di accoglienza, il ?binario della solidaretà?. Compilammo una lista nozze per i barboni nei negozi di arredamento e gli oggetti andarono a ruba».
Così don Elvio ha scritto le pagine più belle della solidarietà a Napoli. Detenuti che escono dl carcere per andare a seminari di musica, malati di mente che trovano lavoro, barboni che tornano a casa. Ma la sua grande sconfitta è avvenuta proprio in carcere. Fu lui a ?tessere le trame? per realizzare la dissociazione di molte famiglie camorriste. Una scommessa grande, evangelica, sociale e, suo malgrado, anche politica: «Nel ?93 alcuni esponenti della camorra vennero da me e mi dissero: ?Padre Elvio, lei ci ha conosciuto quando eravamo ragazzi, a Poggioreale. Ora abbiamo famiglia. I figli sono grandi e ci giudicano. Cosa offriamo loro? La pistola per ammazzare? O forse vale la pena avere il coraggio e dire: non seguite la strada di violenza e di odio, tuo padre ha sbagliato e ora sta pagando i suoi errori?? Io e monsignor Riboldi capimmo che molti erano veramente disposti ad autoaccusarsi, a raccontare i loro crimini. Senza delazioni, però. Senza accusare nessun?altro che se stessi. Era un pentimento non giuridico, ma cristiano. In cambio chiedevano benefici di legge e la possibilità di rivedere le famiglie. Quella notte non la dimenticherò, ho pregato fino all?alba. Mi sembrava che stesse per avvenire un miracolo. L?allora ministro della Giustizia, Giovanni Conso, era entusiata, poi ci furono delle pastoie burocratiche, pestammo i piedi a certi magistrati e la speranza divenne una bolla di sapone. Ma per un momento, sia io che Riboldi credemmo di essere arrivati a un punto di svolta: la lotta contro la camorra poteva essere vinta. Ma la politica, si sa, può più dei sentimenti. E perdemmo una grande occasione».

E oggi qual è la sua sfida per il ?99? «Questo secolo si chiude all?insegna di miseria e sofferenza. Il divario fra poveri e ricchi è una voragine, l?emergenza malati di mente s?allarga a bambini, adolescenti e immigrati. I minori lavoratori fra i 5 e i 14 anni, in Italia sono oltre 300 mila. È la fine di un secolo che chiede speranza. La sfida è capire i bisogni di chi soffre, interpretarli, dar loro voce e condividerne le sofferenza. Una sfida che va raccolta dal volontariato, inteso come gratuità, tempo regalato ai sofferenti. Il volontariato non deve perdersi nei labirinti fiscali e giuridici delle imprese non profit, delle cooperative sociali. No, la solidarietà deve essere uno stile di vita: condivisione con chi soffre senza sostituirsi ai compiti dello Stato. Il volontariato deve essere profetico, deve denunciare e annunciare, dar voce a chi non ne ha. Diventando la spina nel fianco e la coscienza critica di chi comanda e governa. Perciò per il Giubileo, come Caritas, cercheremo di attuare l?appello del Papa. Con la Cei e un cartello di organismi cristiani raccoglieremo fondi per cancellare il debito estero di un Paese povero, esigendo che esso investa in sviluppo umano, promozione, sociale, diritti umani. Ci adopereremo per liberare le nuove schiave, le minorenni, sfruttate sulle strade d?Italia. Chiederemo un Giubileo di conciliazione e pace, la depenalizzazione dei reati minori, un trattamento più umano per i detenuti, l?accoglienza per gli stranieri che arrivano, stremati, nel nostro Paese».

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