Politica

Politiche sociali, la sussidiarietà nel congelatore

Malumori sempre meno silenziosi nelle amministrazioni locali: «Dopo la Finanziaria, il Titolo V della Costituzione continua a essere disatteso»...

di Maurizio Regosa

Cosa pensereste di due operai che costruiscono la stessa casa utilizzando indicazioni almeno in parte differenti? Forse suggerireste loro quanto meno di mettersi d?accordo. Già, il vecchio caro buon senso? Tanto più necessario se applicato a quel condominio di tutti che è il bene comune. Come dovrebbero sapere bene coloro che sono addentro alle segrete cose. Cioè agli affari pubblici che per i cittadini stanno diventando sempre meno chiari e sempre meno evidenti.

Ad esempio si è tanto parlato di addizionali, di possibilità per gli enti locali di aumentare le percentuali (e quindi le imposte) a compensazione dei minori traferimenti derivanti dallo Stato. Un po? meno notizia hanno fatto le critiche delle Regioni che, dall?approvazione della Finanziaria, stanno aumentando sempre più. E che non sono strumentali. Sono piuttosto strutturali, hanno cioè a che fare con il mancato completamento della riforma del Titolo V (quello che stabilisce competenze esclusive delle Regioni, precisando quelle concorrenti) e forse con l?inveterata abitudine, tutta italiana, di fare come se le norme non esistessero.

O meglio ancora: non avessero peso. Ci si riferisce alla decisione da parte del governo di istituire alcuni fondi nazionali (minori, non autosufficienza, per la famiglia, per le politiche giovanili, per l?immigrazione) senza concertarli con le Regioni (le quali avevano inutilmente avanzato alcune specifiche proposte, in sede di Finanziaria). E in alcuni casi senza stabilire i meccanismi di riparto, grazie ai quali determinare le percentuali da destinare a ciascuna Regione.

Altro che sussidiarietà
Altro che decentramento. La parola d?ordine, bisbigliano (a bassa voce, ma con fermezza) alcuni componenti del coordinamento tecnico delle politiche sociali, sembra essere stata quella di accaparrarsi fondi da gestire, senza tener presente almeno due aspetti.

Il primo legato alla lealtà istituzionale, e cioè al rispetto fra enti che hanno differenti competenze. Il secondo, forse più pratico, connesso alle politiche specifiche che in ciascuna Regione si stanno portando avanti da tempo.

«Non ha senso una ripartizione dei fondi a pioggia», dice a Vita un funzionario del coordinamento che preferisce restare nell?anonimato, «perché ciascun contesto ha le sue caratteristiche socio-economiche e ambientali. In Liguria ad esempio, vista la composizione della popolazione, saranno necessari più fondi per la non autosufficienza, in Campania è auspicabile si diano più risorse alle politiche giovanili. Non è pensabile che da Roma si diano indicazioni per le strategie locali. Tanto più che ciascuna Regione ha magari da anni avviato le sue politiche sociali: ha senso non tenerne conto?».

Un patto per le politiche sociali
Va poi detto – ma qui ci addentriamo in questioni molto più ampie – che le somme complessive sono piuttosto esigue, tali da non poter coprire nemmeno i livelli essenziali (quello per la non autosufficienza prevede in tutto 100 milioni di euro, dotazione ritenuta assolutamente inadeguata).

«Sollecitiamo la ripresa immediata di un dialogo stabile e leale, che si è ultimamente affievolito, tra governo e Regioni e una sessione della Conferenza unificata dedicata alle politiche sociali», spiega il veneto Stefano Valdegamberi, coordinatore della Commissione politiche sociali, «abbiamo perciò proposto ai presidenti di Regione di chiedere al governo un confronto per avviare una leale collaborazione istituzionale di respiro pluriennale, per concertare i programmi e siglare una sorta di ?patto per le politiche sociali? che aumenti le risorse in base al Pil e sviluppi il sistema di welfare locale».

Fin qui nessuna risposta. Tanto che all?inizio di marzo la Commissione delle politiche sociali ha nuovamente preso carta e penna e si è rivolta a Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni e delle Provincie autonome, paventando «il rischio di politiche segmentate e di una frammentazione dei finanziamenti, nel momento in cui ciascun dicastero procedesse in maniera autonoma e senza un dialogo costruttivo con le Regioni».

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