Formazione

Erba, Ritorno nella comunità falciata

Il segno del fuoco sulla finestra della strage è ancora lì. È metafora di una ferita che non si è affatto cicatrizzata nell’anima delle persone. Il delitto di dicembre è...

di Sara De Carli

Erba, cento giorni dopo. Il primo a rifiutare un?intervista è Carlo Castagna, ma è comprensibile. Poi don Antonio Paganini, parroco di Santa Maria Nascente, che il 21 marzo dice: «Mi chiami dopo Pasqua». Glissa anche Giancarlo Proserpio, del consultorio La Casa, nonostante il filtro di un amico. Dopo la sbornia mediatica, il desiderio più diffuso a Erba sembra quello di tacere. Non di dimenticare, ma di chiudere con i dettagli di una strage che ha affaticato tutti. In particolare, Erba rivendica il diritto di non essere identificata con la città dove i vicini si uccidono. Che il rischio ci sia, lo dimostra la battuta che gira tra gli adolescenti: «Meglio l?erba dei vicini che i vicini di Erba». Ma la sera dell?11 dicembre – quella in cui Olindo Romano e sua moglie Rosa uccidono i vicini di casa Raffaella Castagna e il figlio Youssuf, la madre di lei, Paola, e l?altra vicina Valeria Cherubini – è uno strappo che difficilmente può essere ignorato. E che le battute su ?Mastro Olindo? e le sue performance di pulizia non possono sanare.

Elaborazione, non rimozione
Uno dei protagonisti del tessuto sociale erbese è Ambrogio Ripamonti, che vent?anni fa ha fondato Noivoiloro: oggi un piccolo mondo di associazioni e cooperative sociali, punto di riferimento dall?integrazione lavorativa dei disabili fino al gospel e allo yoga. «Abbiamo sofferto tutti, Raffaella ha fatto il tirocinio qui, ma si tratta di un fatto così particolare, slegato direi, che non credo getti dubbi sulla tenuta sociale della città. Per questo non abbiamo pensato a nessun progetto mirato. Diverso sarebbe il caso di episodi meno gravi, che però dicono di un disagio collettivo, come il bullismo. Se la gente cerca più momenti di aggregazione? Vorrei dirle di sì, ma non ho visto cambiamenti». La tesi dei delitti tipici della provincia ricca, supermercati-suv-solitudine, è respinta da tutti.

«Anch?io non ho mai commentato quel che è successo», spiega Giovanna Marelli, insegnante e assessore ai Servizi sociali. «Soprattutto quando i giornalisti contrapponevano la parte buona della città, con le sue 120 associazioni di volontariato, a questa vicenda. Come se fossero due piatti della bilancia. Anche se c?è una positività diffusa, una ricchezza sociale e associativa che pesa tantissimo, questo non è sufficiente ad estirpare elementi di aggressività e violenza, che sono presenti in ogni dinamica sociale». Tant?è che di omicidi tra vicini, in Italia, ce ne sono 22 all?anno: il 3,3% del totale. Conoscersi non mette al riparo dall?uccidere.

Lo dice anche Ezio Aceti, psicologo di qua: «Erba è un caso fra gli altri. C?è un handicap emotivo diffuso, si passa dall?emozione all?agito senza passare per la mediazione mentale. Ci sarebbe bisogno di un?educazione alle emozioni, fin dalla scuola materna». «Capisco il desiderio di andare avanti, ma credo che il compito degli amministratori sia quello di non concedere la rimozione», dice la Marelli. Perché questo episodio lavorerebbe carsicamente, per dirla con il sindaco Enrico Ghioni, e produrrebbe fantasmi. Per questo l?amministrazione comunale ha deciso di chiamare fuori i cittadini, farli incontrare per parlare di quanto successo, delle emozioni e dei bisogni che questo episodio ha portato a galla, per individuare delle priorità e tradurle in progettualità urbana. Di guidare l?elaborazione.

Il tabù dei vicini
La mediazione di comunità a Erba si fa da tre anni. Nelle case popolari di via Verga, frazione Crevenna, 11 scale e 66 famiglie. In maggioranza sono italiani, anche se la presenza di immigrati cresce. Si pensava fosse la realtà più a rischio; almeno venti famiglie hanno partecipato a interventi di mediazione tra vicini. Antonella Ravetta è la psicologa che segue il progetto: «Alla base del disagio c?è una grossa incapacità di comunicazione e un radicato senso di abbandono. ?Io ci ho provato, ma non cambia mai niente? è la frase ricorrente». Via Verga è forse il luogo di Erba che più ha compreso ciò che è successo in via Diaz: «Qui non ho mai sentito alcun giudizio», dice Antonella. «Per loro è stata anche una botta di autostima, un sentire di non essere ?il peggio della città?, la dimostrazione che il lavoro fatto ha creato una trama di relazioni che regge».

Da qui però, come da altre case della città, in questi mesi sono partite diverse telefonate all?assessorato ai Servizi sociali: «Se non fate qualcosa, finisce anche qui come in via Diaz». Si tratta soprattutto di anziani e persone depresse o con difficoltà psichiche, le fasce che tutti, qui, riconoscono come le più fragili. «Quello che è successo ha ridefinito l?immaginario collettivo», spiega la Marelli. «Uccidere per risolvere i problemi è diventato un riferimento presente, seppure come minaccia». Un po? di paura c?è, tant?è che lo stesso assessore si è vista spedire indietro un volantino con il suggerimento di togliere la dizione ?vicini di casa?, neanche fosse un tabù. Per don Luigi Pisoni, il coadiutore dell?oratorio di Santa Maria Nascente, si tratta di reimparare la pazienza e la tolleranza; per Franca Pasquino Prati, mediatrice del Centro comasco di mediazione, che ha sede proprio a Erba, di educare fin da bambini alla cultura della mediazione. Per l?assessore Marelli di far toccare con mano ai cittadini la presenza dell?istituzione, che deve dare una risposta ogni volta che è interpellata: dentro la solitudine c?è anche questo, che se l?istituzione mi abbandona io mi faccio giustizia da solo.

In questo senso il debito di Erba nei confronti dello stile scelto da Carlo Castagna è enorme. Lui c?è, al primo degli incontri organizzati dal Comune per riflettere su quanto è avvenuto: in terzultima fila, rifiuta l?invito a intervenire che qualcuno gli bisbiglia all?orecchio verso la fine della serata, si fa avanti solo per salutare monsignor Luigi Bettazzi, fondatore di Pax Christi. Anche qui la gente c?è (non bastano le sedie), ma non parla. In due serate, gli interventi dal pubblico sono stati tre in tutto, di cui uno preoccupato che con la confessione dei coniugi Romano, Erba abbia trovato il suo capro espiatorio e l?autorizzazione a smettere di sentirsi interpellati dalla vicenda.

Siamo tutti razzisti?
La strage di Erba ha una sorta di peccato originale: il fatto che nelle prime dodici ore si sia data la caccia ad Azouz – tunisino fuori per l?indulto – come assassino. Colpa di un?agenzia che l?11 dicembre, a tarda sera, riportava una frase del Procuratore capo della Repubblica, utilizzata nei titoli di tutti i giornali. «Erba non è razzista», dice Giorgio Gandola, direttore del quotidiano La Provincia. «Quando si affronta Erba in termini di razzismo, teniamo presente che la storia di Azouz è una storia borderline, e che anche lui ha avuto atteggiamenti di provocazione nei rapporti con i vicini. Erba lo sa». Pare che la città si sia un po? infastidita ora che Azouz è tornato a Merone, paesone che confina con Erba, come se la sua presenza fosse un problema in più. Laboratori sull?integrazione ce ne sono, ma forse bisognerebbe dargli più visibilità. Perché gli immigrati qui sono più brianzoli dei brianzoli: casa e lavoro, o forse lavoro e basta.

Kossi Komla-Ebri è togolese ma sta a Erba dal 1982 («A Ponte Lambro, per la precisione, se no i miei compaesani si offendono»): è medico chirurgo al Fatebenefratelli di Erba e scrive. «La prima reazione della gente è stata di ritirare su la barriera noi-loro. Ho sentito commenti molto duri da parte di persone al di sopra di ogni sospetto, gente impegnata nel volontariato, di sinistra, che conosco da anni. Il lavoro qua c?è, gli immigrati sono integrati, ma appena succede qualcosa di male, ecco rispuntare le barriere. Una parte di colpa è degli immigrati, che non vanno ai consigli di classe, non partecipano alla vita della città: siamo noi che dobbiamo farci conoscere, dare segnali di partecipazione».

La stessa tesi è sostenuta ai famosi incontri da un ragazzo senegalese, intervento numero due, membro dell?Associazione 3 febbraio: «I miei connazionali lavorano e basta: io invece credo che dobbiamo spendere tutte le energie là dove stiamo vivendo».

Le buone ragioni della convivenza
Si intitola così, riprendendo una frase del cardinal Martini, il progetto messo in piedi da Comune e parrocchia. Quello delle due serate di riflessione, che ora proseguirà con dei piccoli gruppi di lavoro, concreti, focalizzati su Erba. L?obiettivo è quello di far emergere dal basso i bisogni della città e le priorità su cui costruire gli interventi sociali. Qualche idea c?è già: pensare gli interventi dell?emergenza caldo per gli anziani come emergenza solitudine, rafforzando le reti tra medici di base e operatori sociali, e dare visibilità al momento conclusivo delle attività annuali dei laboratori multiculturali. Un passaggio di testimone alla prossima giunta, visto che Erba va verso le elezioni.

Marco Valzania, di Metodi, è uno dei formatori che seguirà questi gruppi: insiste sull?importanza del metodo, della progettazione partecipata, che è già di per sé un risultato. Sono invitati gli operatori sociali, ma anche i commercianti: a tutti spetta costruire un pezzetto di città. L?assessore Marelli sta bussando alle porte delle persone che sono i nodi della rete sociale di Erba: questo è un lavoro che non si fa senza un preliminare ?permesso di entrare?. Alla domanda di sicurezza, Erba ha risposto aumentando le facce e non le telecamere: gira voce che è la solidarietà a rendere solida la città.


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