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Ciad, prove di golpe. I cooperanti italiani raccontano

Il tentativo di colpo di Stato del 13 aprile in Ciad non ha l’apparenza di un singolo episodio. Ma è un altro atto della guerra per il controllo dell’oro nero.

di Emanuela Citterio

«Quando i ribelli hanno attaccato nel villaggio di Koukou, abbiamo contato 120 camionette con una trentina di militari per ognuna. Erano tutti ben equipaggiati con kalashnikov e mitra. Hanno esploso numerosi colpi in aria, poi hanno fatto irruzione nella sede dell?Uhncr (l?agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ndr), e hanno portato via radio e telefoni satellitari. Ma il tutto si è svolto quasi con ordine, senza vittime». A parlare, da un villaggio vicino a Koukou, nell?Est del Ciad, è Filomena Santoro di Intersos. In mezzo alla crisi politico-militare che sta destabilizzando il paese africano, fonti dirette sono i cooperanti italiani stanziati all?estremo Est, nella zona di confine con il Sudan. Un punto di vista privilegiato, a poche decine di chilometri dal Darfur, la regione sudanese che dal febbraio 2003 è al centro di una delle crisi politiche e umanitarie più gravi del continente africano.

Quel 10 aprile
Proprio in questa fascia di territorio ciadiano dove le organizzazioni non governative assistono circa 200mila persone sfollate dal Darfur, sono partiti gli attacchi delle formazioni ribelli che stanno tentando di rovesciare il presidente del Ciad, Iddris Déby. «Nel pomeriggio del 10 aprile i ribelli sono entrati nel campo profughi di Goz Amer, che ospita circa 17mila rifugiati, dove operiamo noi di Intersos e i colleghi italiani dell?ong Coopi», prosegue Filomena Santoro. «Si sono diretti alla gendarmeria del campo. Dopo una breve resistenza in cui è rimasta uccisa una guardia dell?esercito ciadiano, sono arrivati nel vicino villaggio di Koukou. La maggior parte di noi cooperanti si trovava lì. Hanno preso il materiale ma non ci sono state altre vittime, e nessuna aggressione né nei confronti dei civili né degli operatori umanitari».

Alle quattro del mattino dell?11 aprile, il gruppo armato riconducibile al Fuc – Fronte unitario per il cambiamento lascia il campo di Goz Amer e Koukou. Due giorni dopo, il mattino del 13 aprile, i ribelli entrano a N?Djamena, la capitale del Ciad. Comincia a questo punto la cronaca del tentato colpo di Stato, arrivata sulle pagine dei quotidiani di tutto il mondo. Gli scontri fra l?esercito regolare ciadiano e le armate entrate nella capitale durano un giorno. Imprecisato il numero di vittime. Secondo il governo del Ciad ammonterebbe a 350, più altre 150 negli scontri che hanno avuto luogo nella città di Adré, nell?Est del Paese. Secondo i dati ufficiali quasi tutte le perdite sarebbero tra i ribelli, e solo una trentina nell?esercito regolare. Emergenza per il momento rientrata, è la versione ufficiale. Ma i resoconti sono contradditori.

Dalla capitale N?Djamena padre Renzo Piazza, missionario comboniano: «L?attacco è avvenuto a 300 metri da casa nostra. Non ci risulta ci sia stato un numero considerevole di vittime. I ribelli erano molto giovani e giravano a piedi con armi leggere. Hanno chiesto informazioni per strada e hanno attaccato il palazzo del parlamento scambiandolo per la residenza del presidente». Poco a che vedere con gli uomini ben armati di kalashnikov e mitra partiti dall?Est dopo l?attacco al campo profughi di Goz Amer. La chiave di tutto è con molta probabilità ancora nella zona al confine con il Sudan. Dove oltre al Fuc avrebbero la base altri gruppi anti governativi fra cui lo Scud, in cui sono confluiti esponenti di spicco dell?esercito ciadiano e della guardia personale dello stesso presidente Déby.

La questione dei profughi
«Le tensioni nell?Est del Ciad risalgono almeno allo scorso dicembre», riferisce Maurizio Gentile, capo missione di Intersos dal campo profughi di Goz Amer. «Il primo attacco dei ribelli nella città di Adré, capoluogo della zona orientale del paese, risale al 18 dicembre. Negli ultimi mesi abbiamo registrato nuove ondate di sfollati, questa volta ciadiani, che abbandonavano le zone vicino al confine con il Sudan a causa delle incursioni di gruppi armati di cui è difficile stabilire l?identità». Dopo gli attacchi nella capitale, il presidente Déby ha accusato il Sudan di sostenere la ribellione. E ha minacciato di espellere i profughi del Darfur dal Ciad. Una minaccia ritirata pochi giorni dopo, e messa sul tavolo delle trattative con la comunità internazionale insieme alla controversia sui proventi del petrolio ciadiano. Ad assistere i profughi del Darfur in Ciad, in 11 campi profughi creati dall?Unhcr, ci sono decine di ong fra cui le due italiane Coopi e Intersos, con 9 espatriati ciascuna. «Eravamo presenti in Ciad prima di questa emergenza, dal 96» sottolinea Giacomo Franceschini, coordinatore dei progetti nell?area per Coopi. «Continueremo a operare mantenendo le misure di sicurezza. Ma restiamo vigili. Il 3 maggio sono programmate le elezioni presidenziali in Ciad, ed entro quella data molte cose possono accadere».

Intersos
tel. 06.8537431 – www.intersos.org
Coopi
tel. 02.3085057 – www.coopi.org

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