Welfare

Se per una sera Milano mette a tema la solidariet

Milano: il welfare lombardo in crisi per i 77 rom e sinti allontanati da Opera

di Sara De Carli

Il problema è che a Milano ci sono troppe rotonde. Dove tutto scorre, si fluidifica, si accelera. Non ci sono spazi di rallentamento, dove la gente può incontrarsi e costruire relazioni. E siccome di solitudine si muore, ecco che poi si inventa un nemico e ci si costruisce attorno una comunità istantanea. Stiamo parlando di Opera, alle porte di Milano, e della sua lotta contro i rom. Una storia che è stata per due mesi sui giornali e che ora – ora che i rom se ne sono andati, impauriti e stanchi dei continui insulti – pare finita. E finita non è. Per due motivi. Uno, perché i 77 rom rumeni che erano stati temporaneamente ospitati nella tendopoli di Opera, sono ora altrettanto provvisoriamente ospitati dal Ceas, una struttura di accoglienza legata alla Caritas ambrosiana e a don Colmegna. Il cortile del Ceas, nel Parco Lambro, è pieno di roulottes e camper. Dentro ci sono le tv, addobbi di fiori di plastica, ancora qualche addobbo di Natale. Tutto è pulito e ordinato. I bambini giocano nel campo da calcio. Nessun presidio, nessun poliziotto: segno che l?oggetto di quella tensione così aspra non erano le facce di queste 77 persone, ma altro. Sul retro, l?edificio che ospita la cucina comune. Serve almeno 120 persone. I rom che vengono da Opera e quelli – altrettanti – che vivono al Ceas da giugno 2005, dopo lo sgombero del campo di via Capo Rizzuto. Dite voi se questa si chiama soluzione.

Ma c?è un?altra ragione. Che sposta il problema sul versante dei milanesi. Che sulle rotonde scorrono. Che non fanno un plissé davanti al flusso quotidiano di mezzo milione di city user e si inceppano davanti a 77 rom, di cui 37 bambini. Che si sono riconosciuti come comunità a partire dal comune percepirsi vittime: una paradossale invidia sociale che viaggia in direzione contraria alla logica. Cittadini della parte ricca del Paese che invidiano le nude vite dei rom. Volontari inclusi, perché il manicheismo non esiste nella realtà.

È su questo paradosso, su questa «metamorfosi delle persone perbene» che Aldo Bonomi e Gad Lerner hanno chiamato i milanesi a riflettere. Hanno risposto in 300. Hanno risposto, questo è importante, quelli che Bonomi e Lerner miravano a chiamare in causa: la nuova borghesia. Quelli dei flussi finanziari e della cultura, che hanno accettato di contaminarsi con la concretezza di un problema che non è più da osservare e descrivere, ma in cui urge entrare. Dentro le contraddizioni, dentro i limiti, dentro la domanda di sicurezza e di solidarietà. Facendo un nuovo racconto sociale e dando corpo a quella categoria spesso vuota che è la ?responsabilità sociale?. Di seguito, senza filtri, i passaggi-chiave di quella serata.

La città tutta intera

Umberto Galimberti, filosofo: «Bisogna sviluppare una nuova etica, più alta di quella del territorio e della legge, che riconosca l?uomo in chi non ha territorio e in chi non è protetto dalla legge. Quella sarà la nostra condizione futura».

Paola Pierri, presidente di Fondazione Unidea: «Non possiamo scegliere quale pezzo di Milano ci piace. Piazza Cordusio non può essere la nostra città e Triboniano no. La città ci appartiene tutta intera. Abbiamo delle responsabilità e vogliamo averle».

Graziella Carneri, Cgil milanese: «Il patto di legalità va bene, ma va esteso alle imprese. Quanti posti di lavoro mettono a disposizione dei rom? Abbiamo visto molti licenziamenti in questi due mesi perché la tv ci ha fatto riconoscere i volti dei rom».

Marco Revelli, intellettuale: «Questo c?è sotto la questione settentrionale: persone che si misurano con la fantasmagoria di vivere nel regno delle opportunità, scoprono di non avere chances e vivono il rancore. Serve fare racconto sociale delle apocalissi culturali, senza fingere che siano le nuove frontiere dell?umanità».

E don Virginio Colmegna, che spiega per l?ennesima volta questo patto di socialità e legalità così incompreso, che Casa della Carità ha fatto firmare prima ai rom di Opera e poi a quelli del campo di via Triboniano. Un patto che realisticamente coniuga le esigenze di sicurezza e di solidarietà. «Un elemento di mediazione, non il riconoscimento di una cittadinanza di serie B. È dire che c?è una debolezza strutturale, riconoscerla e portarla su un terreno di legalità e di rifiuto degli stereotipi. Dobbiamo creare una cultura che assuma il limite. Il che significa entrare nel mezzo, prendere quello che c?è – complesso, rischioso, pieno di errori – e ristabilire le condizioni per pensare il diverso». Speriamo sia la volta buona.


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