Cultura

Rischiano la vita per aiutare il mondo

Cresce la violenza nel pianeta. E la bandiera dell’Onu offre meno garanzie ai suoi uomini

di Federico Cella

La ferita è ancora molto fresca, l?inizio del nuovo anno tristemente simile alla chiusura di quello vecchio: il 14 novembre scorso Elias Segala, impiegato del Programma alimentare mondiale (Pam) veniva trucidato a Kuito, città dell?Angola; qualche giorno fa, due aerei che battevano la bandiera delle Nazioni Unite sono stati abbattuti nei cieli dello stato africano. A bordo le storie di altri uomini delle Agenzie Onu: uomini che di mestiere aiutano altri uomini, intere popolazioni senza più una casa, senza cibo o medicinali, in continua fuga alla mercè di bande armate, più o meno organizzate, più o meno governative. «Durante l?ultimo abbattimento aereo è morto anche un nostro uomo. Anzi, diciamo che è disperso, perché il corpo non è stato ancora ritrovato, e la nostra speranza non vuole morire», ci racconta con voce ferma Sory Ouane, nativo del Mali, Coordinatore dei programmi in Angola del Pam. «Per cui abbiamo deciso di sospendere ogni ulteriore missione, prima che si faccia chiarezza. Anche se il nostro lavoro a Kuito prosegue: abbiamo ancora una partita di cibo da distribuire, e dovrebbe essere sufficiente alla popolazione per un altro mese e mezzo». Un mondo in cui fioriscono nuovi ?dei della guerra?Non sono moderni eroi i 27 funzionari delle Nazioni Unite che hanno perso la vita in missione durante il 1998. E non lo sono neanche le migliaia di loro colleghi che continuano a lavorare in giro per un mondo che mai come in questi anni sta conoscendo un?incredibile escalation di violenza. Non lo sono perché non vogliono sentirsi tali. Ma se fino a qualche tempo fa la bandiera delle Nazioni Unite era una sufficiente protezione per i funzionari impegnati in missioni di peacekeeping, in invii di emergenza, in progetti di sviluppo, negli ultimi tempi le cose sembrano andare diversamente. «Ovunque nel pianeta si stanno diffondendo sempre più le guerre civili. In 18 anni che lavoro qui non mi è mai capitato di assistere a un tale situazione diffusa di conflitto», ci spiega Arnold Vercken, responsabile per la sicurezza del Pam. «C?è sempre più gente disperata, senza casa, senza di che vivere. E, nel contempo, con la caduta dei due blocchi politici, c?è stata un?incredibile diffusione di nuovi ?dei della guerra? e di armi di ogni genere, specie quelle leggere. Comprare un fucile e andare in giro in bande a rivalersi su tutto e tutti, soprattutto sugli stranieri, è un passo fin troppo facile». Banditismo disorganizzato, nessuna speranza per il futuro, perdita dei valori. In molti stati africani, dalla Regione dei Grandi Laghi all?Angola, alla guerra civile e alla mancanza di cibo si aggiunge una radicale insicurezza del vivere. «A Kinshasa, capitale della Repubblica del Congo, comprare un kalashnikov al mercato costa solo 50 dollari», ci conferma Stefano Porretti, responsabile per i programmi Pam negli stati centrafricani. «A Brazzaville ho avuto modo di assistere ai saccheggi di bande di ragazzini con niente da perdere, capaci di uccidere un?intera famiglia solo per poter rubare il loro televisore». Angola: la missione prosegue Dal Congo all?Angola: una guerra diversa, problemi simili. «Non posso escludere che l?abbattimento degli aerei possa essere stato opera di una piccola banda di disperati: ormai l?escalation delle armi che circolano in questo continente non conosce limiti», conferma Sory Ouane. «Ma quando ero lì di persona, a dicembre, proprio quando è riscoppiato il conflitto, non avevo la sensazione di essere in pericolo. Tutto sembrava sotto controllo, ma in realtà si trattava di una bomba pronta a esplodere in qualsiasi momento. E così è stato: abbiamo dovuto far convogliare i trecento dipendenti del Pam a Luanda, perché il resto del Paese non è più sicuro». E così la popolazione della capitale è rapidamente cresciuta, fino ad arrivare a più di quattro milioni, cioè quasi la metà dell?intero Paese. Migliaia di persone ammassate nelle strade, senza neanche la speranza che arrivi qualcuno a distribuire viveri e medicinali. «Ma stiamo solo aspettando che la situazione sia più chiara, poi riprenderemo le nostre attività», conferma sicuro il signor Ouane. Il lavoro in Sudan. Sempre in fuga Storie di ordinaria cooperazione. Torniamo nell?est africano, nel sud del Sudan, dove fame e paura sono concetti ormai assodati da tempo. Gawaher Atif, Coordinatore dei programmi Pam in questo Paese, qualche mese fa si trovava a Maper, nella provincia martoriata di Bahr el Ghazal, in un centro di distribuzione viveri. Le si avvicina un bambino, che in arabo stentato le chiede: «?Per favore portami con te: non ho più i genitori, una casa, niente?, il ragazzo era uno dei sudanesi venuto a raccogliere i viveri», ci dice la signora Atif. «In molti raccontavano dei recenti combattimenti nella zona, il bestiame razziato, le loro capanne e i campi bruciati. Vestiti di stracci si salutavano affettuosamente, prima di intraprendere il viaggio di tre/quattro ore verso casa, con la razione per la loro famiglia. Ma, al terzo giorno la coda iniziò a diminuire». I bollettini radio annunciavano imminenti combattimenti nella zona: l?attesa e, dopo due ore, il rumore dei primi spari. Il campo del Pam venne smantellato in fretta e furia e iniziò la fuga. «Uomini, donne e bambini, trasportando quello che potevano, dovevano scappare ancora una volta. E noi con loro, alla volta del campo Pam di Wunrock, attraversando zone in cui il fetore dei resti umani ancora stordiva i sensi», prosegue concitata Gawaher Atif. «Il mattino dopo, ancora una volta, ci siamo svegliati in mezzo a una fuga: uomini e animali impazziti, con l?eco delle armi che incalzava alle nostre spalle. Era la fine di un altro centro di distribuzione viveri, ma quando arrivammo a Pakor, tre ore più tardi, a tutti noi è subito apparso chiaro che il nostro lavoro doveva proseguire comunque: in questa zona i bambini erano addirittura resi deformi dalla malnutrizione». Ma la guerra, soprattutto se civile, non guarda in faccia nessuno: un nuovo allarme, una nuova fuga, questa volta in Kenya, a Lokichokio. Le armi avanzavano e la distribuzione di viveri, per il momento, doveva cessare. Distribuire viveri in Afghanistan, tra le pallottole Ma il continente africano non è l?unica area a rischio per gli uomini e le donne impegnati in agenzie umanitarie e ong. Pete Amelat, direttore dell?ufficio del Pam in Afghanistan, si trovava a Mazar-i-Sharif nel maggio del ?97, quando arrivarono le truppe dei talebani. «C?erano combattimenti strada per strada che ci hanno costretto a rifugiarci in un bunker vicino al centro di distribuzione», racconta angosciato Amelat. «Le pallottole ci fischiavano attorno, un collaboratore locale ha dato un?occhiata fuori ed è stato subito colpito. Un gruppo di saccheggiatori armati, poco dopo, è arrivato in cerca di soldi. Ma fortunatamente il centro ormai era stato evacuato». A Mazar, dopo tre giorni, c?era stata una tregua nella battaglia: le strade erano piene di cadaveri, ma il lavoro dei funzionari Pam poteva ricominciare. «Il nostro è un lavoro altruistico, è uno stimolo che ti riempie di coraggio. Ma dopo pochi giorni siamo stati costretti comunque a evacuare. In un clima irreale siamo partiti alla volta di Herat, da dove avremmo preso un aereo: lungo la strada era pieno di uomini armati, tra cui alcuni con il bazooka, che non ci hanno mai perso di mira». Non sono eroi, dicevamo, ma uomini che aiutano altri uomini. Anche quando lavorare diventa impossibile, se non addirittura pericoloso per la propria vita. «Il funzionario Pam di stanza in Sierra Leone ha abbandonato gli uffici di Freetown solo al cosiddetto ultimo momento», ci conferma Stefano Porretti. «D?altronde ci sono centinaia di migliaia di persone che hanno un futuro solo grazie al cibo che quotidianamente riusciamo a far loro arrivare. Per questo ognuno di noi è ben determinato a non mollare mai».


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