Cultura

Se il ghiaccio diventa merce rara

Sos Alpi: un climatologo spiega le conseguenze del grande caldo tra le vette

di Redazione

di Luca Mercalli È il 5 settembre 2006: sulle Alpi mai si era vista una giornata settembrina più calda. Sul Ghiacciaio Ciardoney, Gran Paradiso, il sole è sorto da poco, ma alle otto il ghiaccio fonde già in abbondanza: rivoli d?acqua scorrono sonori e vi incidono solchi sinuosi e profondi anche un metro e mezzo, le bédière. Della poca neve invernale non c?è traccia, tutto il ghiacciaio è scoperto e alla mercé del sole cocente. Per la quarta stagione consecutiva, all?annuale appuntamento per le misure glaciologiche emergono dati preoccupanti: due metri di spessore glaciale in meno, 26 metri di regresso alla fronte, nuove rocce – rimaste sepolte dal ghiaccio per almeno cinque secoli – che ora spuntano qua e là. Quando, verso le 13, il sole culmina al meridiano, il termometro segna 17 °C all?ombra a 2.900 metri: è un nuovo record. Ma è solo un esempio per descrivere una situazione estiva ormai ricorrente e comune a tutta la catena alpina. Con un aumento di temperatura media di 1,2 °C registrato negli ultimi cent?anni, oggi la superficie glacializzata delle intere Alpi si è ridotta della metà rispetto al culmine della Piccola Età Glaciale: allora, tra il 1820 e il 1850, i ghiacci si estendevano su poco meno di 4.500 chilometri quadrati mentre nel 2000 non ne restavano che 2.270 circa, stando ai risultati di un recentissimo lavoro condotto da Michael Zemp e collaboratori dell?università di Zurigo. Inverni troppo avari di neve, estati troppo calde. E la tendenza al regresso si è nettamente accentuata a partire dal 2003, quando si calcola che in una sola stagione sia andato perduto il 10% circa del volume di ghiaccio rimasto sulle Alpi. Il fenomeno non è locale, ma la riduzione della copertura di neve e ghiaccio è generalizzata su entrambi gli emisferi del pianeta, come conferma l?ultimo rapporto delle Nazioni Unite (Ipcc) sul cambiamento climatico. Scenari bollenti E i modelli di previsione non dipingono un futuro roseo per i ghiacciai alpini. Ancora una volta tornano in aiuto le ricerche eseguite dai glaciologi zurighesi: prendendo in considerazione uno scenario di riscaldamento atmosferico intermedio, vale a dire 2 °C all?orizzonte del 2060, l?ulteriore riduzione di area glaciale rispetto a oggi potrebbe raggiungere il 70% in Svizzera. I nostri nipoti potranno ancora vedere parte delle grandi calotte di ghiaccio al di sopra dei 3.500 metri (Oberland bernese, Monte Bianco, Monte Rosa, Ortles-Cevedale), ma il destino dei ghiacciai più piccoli e posti a quote inferiori è praticamente segnato. Ad esempio, si prevede che la Valle di Susa vedrà scomparire i suoi modesti ghiacciai nel volgere di una decina d?anni appena. Stessa sorte per il minuscolo ghiacciaio del Calderone, l?unico dell?Appennino, esile placca di glacio-nevato alle falde settentrionali del Corno Grande (Gran Sasso). Entro i prossimi decenni, le conseguenze prevedibili di questa deglaciazione sono molteplici: minore disponibilità estiva di acqua sia per l?irrigazione in pianura padana, sia per la produzione di energia idroelettrica; minore attrazione turistica dell?ambiente d?alta montagna, con difficoltà nei percorsi alpinistici e nella pratica dello sci estivo. Ma non mancheranno i rischi di tipo idro-geologico: instabilità dei terreni d?alta quota liberati dai ghiacci con erosione di morene in caso di piogge intense; alterazione del permafrost e frane dalle pareti rocciose; inoltre, crollo di fronti glaciali sospese, svuotamento di laghi temporanei generati dalla maggiore fusione sopra ai ghiacciai o ai loro margini (come il lago Effimero a Macugnaga nel 2002, e il lago del Rocciamelone in Valle di Susa nel 2005). Un cambiamento certamente epocale, ormai avviato, i cui effetti – anche nella migliore delle ipotesi – si trascineranno per secoli. Ora, fugati i dubbi sull?esistenza del problema e sull?effettiva responsabilità umana, tocca passare subito ad azioni concrete ed efficaci: da un lato per ridurre le emissioni di gas climalteranti e stabilizzarne la concentrazione in atmosfera, dall?altro per adattarsi ai nuovi scenari ambientali. Ma servono sia una forte volontà politica sia una capillare educazione dei cittadini.

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