Volontariato
Cambiamo ottica: funzionano se producono bene comune
Nei distretti una parte della produttività deriva dalla coesione sociale. Secondo uno dei massimi esperti del settore, il ruolo del non profit, quindi, è fondamentale.
Giacomo Becattini, professore emerito di Economia politica all?università di Firenze, già presidente della Società italiana degli economisti, è il massimo studioso italiano di distretti industriali. Da sempre è un convinto sostenitore della tesi, per sua stessa ammissione non molto popolare tra i colleghi, per cui, portando al limite il concetto, il ?vero? distretto industriale è una comunità produttiva simile a una sorta di piccola nazione economica dentro a una nazione politica. «I distretti industriali», spiega, «sono una entità in cui si può effettivamente parlare di bene comune perché la maggioranza degli abitanti stabili vi nutre, insieme alle consuete preferenze individuali per i beni e i servizi offerti dal mercato, anche una preferenza per lo ?stile di vita?, composto essenzialmente di rapporti interpersonali non formalizzati, storicamente prodottisi nella loro comunità».
E&F: Eppure, professore, oggi certe peculiarità civiche dei distretti sembra che si siano un po? appannate…
Giacomo Becattini: I distretti industriali oggi sono sottoposti, per via della globalizzazione e soprattutto della sua esaltazione ideologica, a una pressione crescente, le migliori imprese dei distretti vengono acquistate da gruppi esterni oppure una parte degli stessi operatori dei distretti cominciano a scompaginare – decentrandone alcune fasi – la filiera produttiva tipica. L?originale carattere di comunità produttiva, conseguentemente, si attenua.
E&F: Come si può correre ai ripari?
Becattini: I tempi sono maturi per porre la questione in questi termini: se permane l?egemonia della concezione per cui la produzione è un fatto esclusivamente di pertinenza delle imprese, lo spazio per i distretti si restringe progressivamente. Ma c?è un?altra possibilità per un finale diverso: quella di contribuire ad affermare il concetto che i processi produttivi non riguardano solo ciò che accade dentro la fabbrica ma coinvolgono anche la comunità. Ne consegue che una politica che voglia adoperare il distretto come strumento di sviluppo deve riorientarsi per sollecitare quelle strutture economiche, ma anche sociali, culturali, religiose che promuovono la consapevolezza dell?interdipendenza degli interessi di tutti gli abitanti stabili di un distretto industriale.
E&F: In altre parole?
Becattini: Credo che per ottenere una simile ?virata? ci sia bisogno di un?azione di concerto che coinvolga tutti i principali attori della vita socio-economica e politica di un territorio. Innanzitutto c?è bisogno che ad agire siano gli studiosi, gli economisti in particolare, molti dei quali oggi hanno un?idea dei distretti decisamente ?ristretta?. In sostanza identificano il distretto industriale col sistema delle sue imprese. è necessaria una nuova cultura dei distretti, di cui debbono farsi promotori anche gli imprenditori, che metta al centro il fattore competitivo ?coesione sociale?. Tocca poi agli amministratori locali, i quali debbono comprendere che il benessere della comunità locale è il fine e il sistema locale delle imprese solo un mezzo. Importantissimo, imprescindibile, ma sempre un mezzo.
E&F: Che ruolo al non profit?
Becattini: Prezioso, fondamentale. Io che ho studiato a fondo, per esempio, il distretto di Prato, so bene quanto importante sia stato il ruolo dell?associazionismo spontaneo e delle forme di solidarietà sociale – decisamente superiori alla media – nel favorire, tra l?altro, l?integrazione degli immigrati, leva imprescindibile dello sviluppo distrettuale. Nei distretti industriali c?è posto, eccome, per il non profit. Anzi, io direi che mentre il non profit si presenta come una ?stravaganza?, come un corpo estraneo caro solo a pochi idealisti, ma snobbato, anche se non apertamente, da tutti i cosiddetti ?realisti?, ebbene nell?ambiente particolare del distretto dove, appunto, una parte della produttività deriva da fattori di coesione sociale, qui il non profit si trova a casa sua.
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