Leggi

Il rilancio dei distretti ha bisogno di capitale. Sociale

L’ultima Finanziaria punta su incentivi fiscali e bond. Ma - lo dicono gli esperti - per far ripartire uno dei modelli vincenti del made in Italy serve anche altro.

di Francesco Maggio

Fin che la barca andava, tutti la lasciavano andare. Nessuno si preoccupava se la direzione lungo la quale l??imbarcazione? distretti industriali navigava fosse ancora quella giusta o, invece, ci fosse bisogno di modificare per tempo la rotta.

D?altronde il miglior biglietto da visita del made in Italy nel mondo, tanto caro persino all?ex presidente Usa Bill Clinton, aveva i numeri dalla sua parte per sentirsi inattaccabile: circa la metà dell?occupazione industriale; un export formidabile che in alcuni settori come, per esempio, quello delle macchine per l?industria tessile e per le calzature, sfiorava anche il 70% del totale italiano.

Crisi e rimedi
Nel giro di qualche anno, però, tutto è cambiato. La concorrenza internazionale, in primis cinese, ha scosso dalle fondamenta, e messo non di rado in crisi, questo modello tutto italiano di fare impresa. Al punto che oggi, seppur timidamente, si cerca in qualche modo di porvi rimedio. Come? Il governo, con l?ultima Finanziaria (legge 266/2005, commi 366-372) ha istituito una Commissione che entro il prossimo 31 ottobre dovrà definire «le caratteristiche e le modalità di individuazione dei distretti produttivi quali libere aggregazioni di imprese» per consentire loro di beneficiare di una tassazione unica, di poter emettere obbligazioni bancarie garantite e ottenere un rating di distretto. La Commissione, composta da 40 personalità di differente estrazione culturale e professionale, ha appena avviato i lavori ma se, come sostiene l??ideatore? Giulio Tremonti, il suo scopo è quello di «far convergere la realtà formale della legislazione sulla realtà sostanziale della produzione», va anche sottolineato che, probabilmente, questa realtà sostanziale è molto più complessa da decodificare rispetto a quanto si pensasse.

Il vantaggio competitivo dei distretti non è determinato solo dal saper fare e dalle economie di scala. C?è dell?altro. Che riguarda molto da vicino la comunità e la società civile organizzata, finora colpevolmente ?snobbata?. «I distretti industriali», spiega Marco Fortis, presidente della Commissione, «sono il risultato di un?alchimia meravigliosa, sono paragonabili a una sorta di ecosistema in cui tutto è collegato. I distretti hanno contribuito a creare una scala di valori per cui eccellere non è solo un obiettivo di crescita professionale ma anche sociale e umana. Ne consegue che il tessuto civico è un fattore di successo indispensabile anche se non saprei stabilire un ordine di importanza».

Il capitale sociale
Decisamente più esplicito, in proposito, si mostra Stefano Zamagni, ordinario di Economia politica all?università di Bolo-gna: «Il discorso dei distretti industriali è stato a lungo mistificato. Adesso tutti sembrano aver scoperto l?importanza del capitale sociale. Ma non sempre è stato così, anzi molti hanno confuso la causa con l?effetto. Si pensi a Sassuolo: si riteneva che perché tutti facevano le piastrelle e funzionava bene, allora il segreto del successo del distretto risiedesse nel fatto che tutti facevano la stessa cosa. Ma non è così, non è la specificità tecnologica e merceologica che fa il distretto bensì l?esistenza di beni relazionali, di capitale sociale e civile».

«I segreti del distretto», aggiunge Zamagni, «non sono nella redistribuzione del reddito ma nella produzione. Come già aveva intuito più di cento anni fa l?economista Leon Walras, quando si va a distribuire il reddito non si potrà mai riparare alle ingiustizie commesse nel produrlo. L?idea del distretto è tutta qui, tanto è vero che nei distretti c?è meno ineguaglianza che altrove perché le imprese, grazie ai contratti relazionali parasindacali, permettono che la distribuzione sia contestuale alla produzione. Adesso questo meccanismo si è inceppato, ma è da qui che bisogna ripartire, facendo tesoro degli errori di ?disattenzione? commessi in passato circa il ruolo strategico che ricopre il capitale sociale. E guardando a esperienze, come quella dell?economia di comunione, che da sempre fanno coincidere i due momenti».

Chi invece, con sano pragmatismo, confida nel riuscire a fare «di necessità virtù», è Paolo Terribile, presidente del club dei distretti: «Sono convinto che il rilancio dei distretti passi dal tessuto civico perché è difficile scindere le imprese che li compongono dal territorio in cui si trovano. È difficile, per esempio, scindere Massa Carrara dal marmo o da Michelangelo. Naturalmente ciascuna impresa ha identità molto forti, non sempre tra di loro immediatamente ?compatibili?. Ma la legge finanziaria, così com?è congegnata, le spinge a mettersi insieme e questa unione alimenta la produzione di capitale sociale e la creazione di nuove filiere». «A Mazara del Vallo, ricorda Terribile, è appena stato inaugurato il primo distretto della pesca, che va dalla cantieristica al conserviero».

Reti aperte
Di tutt?altro avviso il giudizio sulla Finanziaria di Enzo Rullani, ordinario di Strategia d?impresa all?università Ca? Foscari di Venezia: «La legge Tremonti è sostanzialmente una legge di agevolazione fiscale. È vero che riconosce legislativamente il distretto: tante piccole imprese le fa diventare una grande. Ma non è una dinamica facile da gestire perché i distretti sono tante teste. C?è invece bisogno di intervenire su due fronti. Bisogna investire sul capitale intellettuale che oggi è molto invecchiato: le conoscenze derivano ancora prevalentemente dall?esperienza manuale mentre invece ce ne vogliono di più qualificate». «L?altro grande investimento», prosegue Rullani, «attiene al capitale sociale. Il tipo di reti che hanno oggi i distretti sono reti chiuse che prevedono come unica apertura l?esportazione, invece devono puntare a creare reti aperte che contemperino una nuova logistica, nuovi sistemi di garanzie».

E chi deve farsene promotore? «Qui il ruolo del pubblico», risponde Rullani, «è strategico così come quello dell?associazionismo. Stavolta le imprese vanno innanzitutto ?soccorse?».

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.