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I giornalisti camuffati: metafora di una crisi

Ha fatto un certo clamore la recente inchiesta in cui un giornalista, presentando identità fittizie, è riuscito a scoprire il pensiero dei preti di base ...

di Riccardo Bonacina

Caro Bonacina,
ha fatto un certo clamore la recente inchiesta (L?Espresso), in cui un giornalista, presentando identità fittizie e dichiarando peccati immaginari, è riuscito a scoprire il pensiero dei preti di base (quelli che tutti i giorni ascoltano i fedeli e i loro problemi) sui principali temi etici contemporanei, come coppie di fatto, eutanasia, preservativo, droga, prostituzione. Nella sostanza delle risposte emerge una certa lontananza nella pratica quotidiana dai burberi diktat della dottrina cattolica ufficiale. Buona notizia, io penso! Emerge insomma un generalizzato richiamo al buon senso, alla responsabilità individuale, alla coscienza personale. Richiami pastorali opportuni, e per niente integralisti. Autorevolezza e non autorità, rigore non rigidità, alle volte perfino senso ironico. Forse anche certi vescovi dovrebbero trarre insegnamento.Devo, però, anche dire che ritengo sbagliate le modalità dell?indagine, non tanto per il presunto atto sacrilego, quanto perché si è trattato comunque di un inganno, e non è il primo. Mi sembra che ormai l?unica modalità degli scoop giornalistici sia quella del travestimento e dell?inganno, sia pur finalizzato. Ci si traveste da immigrato o da penitente, oppure si pubblicano intercettazioni. Che ne pensa?

Francesco, Rimini

Caro Francesco,
la tua lettera tocca un nodo vero. è proprio così: l?ultima frontiera del giornalismo di inchiesta italiano sta tutta nello dismettere i panni del giornalista per camuffarsi sino al nascondimento. Una sorta di gioco di ruolo, vera metafora della crisi di questo mestiere. Ci si traveste, di volta in volta, da penitente o da immigrato, da malato o da inserviente in tribunale; sembra questa ormai l?unica via per ?carpire? notizie, per far emèrgere magagne e diritti calpestati. Aggiungo, sembra anche l?unica via per incassare qualche premio. Quando, negli anni 80, cominciai a fare questo lavoro, le notizie e gli scoop erano derivati proprio dall?essere ?sfacciatamente? giornalisti. Il giornalista, per conto dei suoi lettori-cittadini (questa era la sostanza vera dello status di giornalista), voleva e doveva sapere e le istituzioni o i padroni si guardavano bene dal non fornire risposte. Ovviamente non tutte le risposte erano vere, ma l?abilità del cronista consisteva proprio nell?incrociare le risposte di diversi interlocutori sino ad arrivare all?approssimazione di una verità. Questo era il lavoro di inchiesta e di indagine, un lavoro in cui il giornalista recitava il suo ruolo orgogliosamente, perché ?mandato? da qualcuno, appunto, i lettori. Oggi, non è più così, il legame tra giornalisti e lettori è in crisi da tempo, ed è una crisi grave quanto quella tra giornalisti ed editori, anche se fa meno notizia. Così come sono aumentate le zone d?ombra dei diversi poteri. Intercettabili, magari ma difficilmente interrogabili perché agiscono sempre meno in superficie. Rassegnarsi? No.


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