Welfare

La felicità non tocca alla politica

L'editoriale/ Cosa può fare la politica per la nostra felicità? Romano Prodi ha posto una questione troppo elusa in quest’Italia un po’ sfiduciata e un po’ depressa.

di Giuseppe Frangi

Cosa può fare la politica per la nostra felicità? Intelligentemente Romano Prodi, chiudendo l?ormai famoso faccia a faccia televisivo con Silvio Berlusconi, ha posto una questione troppo elusa in quest?Italia un po? sfiduciata e un po? depressa. Ha concluso così Prodi il suo appello: «Perché le energie ci sono a condizione che ci mettiamo insieme. E allora sarà possibile, a mio parere, organizzare anche un po? di felicità per noi». Bello lo slancio e anche vincente davanti a un interlocutore che paradossalmente aveva abdicato al proprio ruolo di immaginare e proporre un futuro. Eppure in quella formulazione usata da Prodi c?è qualcosa che insospettisce. Forse è solo un lapsus, ma è un lapsus rivelatore. Che felicità è, infatti, quella che richiede di essere ?organizzata?? E ci si può fidare di una politica che si prende la delega di organizzare la felicità degli uomini? Ovviamente non vogliamo chiudere maleducatamente la porta in faccia all?ipotesi di una politica che si preoccupa della nostra felicità, solo per un?improvvida svista lessicale. Ma l?occasione è propizia per chiarirci e per chiarire qualche idea in proposito. E la prima idea è quella che la politica deve fare un passo indietro. Che non deve cadere nella tentazione evocata oltre un secolo fa dal grande Tocqueville quando si immaginava le possibili derive della democrazia; tra le altre derive, secondo Tocqueville, c?era quella di un dispotismo dolce, «previdente e mite che lavora al benessere degli uomini e vuole esserne l?unico regolatore». Completando l?intuizione di Tocqueville, Vaclav Belohradski, un dissidente cecoslovacco, esule in Occidente, negli anni 70 aveva messo in guardia dagli «Stati che programmano i cittadini, le industrie, i consumatori, le case editrici, i lettori, ecc. Tutta la società un po? alla volta diviene qualcosa che lo Stato si produce». Ecco l?idea che non vorremmo mai più passasse per la testa a nessuno: il programmare uno Stato – magari buono – che plasmi e generi una società su misura. Soddisfatta e ?felice? di stare sotto protezione. La felicità è una dimensione irriducibile a qualsiasi potere, anche il migliore. È una dimensione davanti alla quale il potere, quello sano, quello affidabile, deve pudicamente arretrare. Al potere (perché la politica è comunque l?esercizio di un potere) dobbiamo chiedere una sola condizione preziosa: la libertà. Quella è la premessa perché la felicità accada come un?esperienza reale, arrischiata nella vita di tutti i giorni; un?esperienza personale, capace di cambiare i rapporti e i contesti. L?immagine più semplice e concreta della felicità in azione è quella della creatività sociale che diffonde attorno a sé una contentezza di vivere e di stare con gli altri. Che produce rapporti affrancati da quella disumanità che le logiche del potere seminano dappertutto, anche nel cuore degli uomini migliori. Forse è una visione poco escatologica della felicità. Perché la felicità ha in sé una dimensione antifondamentalista. è il centuplo quaggiù, stupendamente annunciato dal Vangelo. Una cosa grandissima, ma che ha la coscienza pacata della propria incompletezza.


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