Cultura

Conflitto

Primo: non è l’opposto di “pace”. Secondo: se ce ne priviamo, facilitiamo la guerra. Terzo: il miglior esito di un conflitto è la buona preparazione del successivo.

di Sara De Carli

Far coincidere conflitto e guerra è sbagliato. Il conflictus latino (polemos in greco) non indicava la guerra guerreggiata, ma l?incontro tra differenze che caratterizza l?esperienza umana anche nelle relazioni di massima corrispondenza, come l?amore. Il conflitto cioè è la dinamica più propria della nostra vita: solo che noi ne abbiamo paura, e tendiamo a negarlo. Perché la diversità è generatrice, e per generare il nuovo noi dovremmo morire a noi stessi. E allora preferiamo far finta di niente. Solo che così il conflitto diventa antagonismo. Conflitto , s.m. 1. Combattimento, scontro armato; estens. guerra. 2. fig. Opposizione, contrasto. 3. Contrasto tra autorità politiche, giudiziarie o amministrative. Dal latino confligere, scontrarsi. (dal Dizionario italiano Sabatini Coletti) Vita: Perché quando parliamo di conflitto intendiamo la guerra? C?è un motivo storico o psicologico? Ugo Morelli: Innanzitutto c?è la dimensione interiore: identifichiamo il conflitto con la guerra perché il conflitto ci fa paura, tendiamo a negarlo e negandolo gli attribuiamo una valenza solo negativa. Di fronte al diverso, a ciò che mette in crisi il nostro equilibrio consolidato, avvertiamo due bisogni: quello di conoscere e quello di negare. Da una parte siamo attratti dal diverso, dall?altra tendiamo a negarlo, a fare come se non esistesse, perché affrontare quella cosa significa metterci in discussione. Ma una catena di conflitti negati genera antagonismo. Il punto vero è questo: come il conflitto a volte degenera in distruttività. Noi siamo animali aggressivi, ma l?adgredior dice semplicemente l?avvicinarsi. L?aggressività è naturale, ma lo sbocco nella distruttività è qualcosa di culturale, perché la cultura e l?educazione consentono di elaborare l?aggressività in una direzione cooperativa o distruttiva. Questo punto ha una dimensione politica, è chiaro: per una buona gestione del conflitto è essenziale stabilire una connessione tra mondo interno ed esterno. Vita: Quindi torna l?elemento storico? Morelli: Per un lungo periodo il diverso era troppo lontano e ci sconvolgeva. Se legge i diari di Cortez, scopre che le eccessive distanze culturali fra i componenti della stessa specie umana facevano prevalere la paura sulla curiosità. Questo ha portato a tutte le distruzioni che sappiamo. Dopo di che, in un tempo brevissimo, siamo passati a un?eccessiva vicinanza. Oggi noi dobbiamo sostenere una quantità di relazioni con la differenza che eccede la nostra capacità. La domanda che oggi si impone è: quanta storia può contenere un uomo in un giorno? Questo fa sì che noi anziché chiederci quali sono le buone ragioni dell?altro e cercare dentro di noi una radice di quelle stesse buone ragioni (che magari abbiamo, ma esprimiamo in modo diverso) degradiamo in microtribù localiste etnicamente situate e quindi enfatizziamo l?identità, l?etnia, le mura, i confini, dimenticando la comune matrice umana. Questo è un passaggio di soglia della civiltà umana, è un passaggio che dobbiamo fare oggi. Facendo attenzione a un paio di ?nemici? della buona gestione dei conflitti: l?ideologia e il moralismo. Vita: Sembra il contrario di una tesi piuttosto in voga, quella che fa coincidere una civiltà con i suoi valori… Morelli: Io credo che la prima condizione per una buona gestione del conflitto è quella di contenere gli orientamenti valoriali. È tempo che noi riconosciamo – come diceva Terenzio – che nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Se c?è un uomo celebra un rito al chiaro di luna tagliando la testa a trenta maschi giovani, io non posso liquidarlo dicendo «è disumano». Lui è un uomo, quindi il suo atteggiamento è umano. Noi oggi dobbiamo sviluppare una coscienza di specie, che vuol dire disporci allo spiazzamento dei nostri valori e convinzioni e al riconoscimento dei vantaggi che le altre culture possono portarci. Un po? come gli italiani che in giro per il mondo vogliono mangiare solo gli spaghetti: è terribile, la realtà per loro è divisa in due, spaghetti e non-spaghetti. Questo è il confine. Noi abbiamo costruito confini là dove c?erano zone di interscambio culturale, dove c?era il margine, e lo abbiamo fatto perché lo stato-nazione ci ha portato vantaggi. Ma lo stato-nazione è finito, travalicato dai flussi economici, culturali, informativi. Questa nuova coscienza di specie ci permetterà di connettere il focolare e il mondo, il focolare comunque ci serve, ma possiamo farlo continuando a guardare il mondo dai luoghi o imparando a guardare i luoghi dal mondo. Vita: Che fine fa, in questa prospettiva, la questione identitaria? Non solo nell?ottica dei conflitti di civiltà, ma anche di conflitti più circoscritti, penso alla Val di Susa e alla Tav, piuttosto che ai conflitti tra partner? Morelli: In termini analitici molti fanno leva sull?identità per strutturare una posizione difensiva. Pensi a Sagunto, l?inespugnabile, una città con mura che fanno paura ancora oggi: ha resistito fino a quando i Romani hanno pensato di usare le mura di Sagunto contro Sagunto stessa. La strategia difensiva è figlia della paura, ma noi oggi abbiamo bisogno di riconoscere le buone ragioni dell?altro, anche se ci sembrano insopportabili. Prima di tutto noi dobbiamo rivedere le ragioni che ci fanno pensare all?identità come a qualcosa di fisso. Chi ha detto che l?etnia, l?identità, gli aspetti amministrativi (la mia carta d?identità) e il mio sentimento di appartenenza culturale devono coincidere? Quando queste quattro cose coincidono, noi ci uccidiamo. Dice Derek Walkott, un grandissimo poeta, premio Nobel nel 1992: «Sono un africano albino che ama il mare». Cribbio! Io sono un contenitore di differenze e in quanto contenitore di differenze elaboro la mia identità. Vita: Quindi l?identità che cosa può essere? Morelli: L?identità è questione di scelte, e noi oggi dobbiamo scegliere se darci un?identità difensiva o un?identità che, mentre tutela una certa autonomia e quindi afferma i principi di quella autonomia, cerca le condizioni per il confronto, per una buona gestione del conflitto. Io la chiamo ?via depressiva?, cioè il fatto che io deprimo un po? la mia pretesa di completezza -io sono io e basto a me stesso – per riconoscere che nella relazione con l?altro non solo io emergo come io, ma mi completo, mi costituisco. Questa idea nasce dalla tradizione talmudica, quando un gruppo di rabbini si chiede come ha fatto Dio a creare il mondo dal momento che Dio è già tutto. Discutono, ci sono varie risposte, finché uno ha l?idea: Dio per creare il mondo si ritira. Per creare una civiltà plane-taria è necessario che noi gestiamo le relazioni con una prospettiva in parte depressiva, che permetta di riconoscere non solo che dobbiamo fare posto all?altro (questa è la via moralistica), ma che dalla presenza dell?altro ci deriva un vantaggio straordinario, perché la presenza dell?altro ci costituisce e poi man mano ci completa. L?identità è qualcosa di evolutivo. Ci vorrebbe un neologismo: noi siamo una ?diventità?, non una identità. Vita: Tutti parlano del dialogo come soluzione ai problemi attuali; lei sta dicendo che ci vorrebbe più conflitto? Morelli: Sì. Oggi ci sono quattro parole che vanno sottoposte a una radicale critica. La prima è tolleranza. È una parola che usiamo come coperta dell?inciviltà, perché questo concetto implica che io ?conceda? all?altro la possibilità di esistere, ovvero che io tollero la sua esistenza. Eppure noi la usiamo come fosse una soluzione: è una delle forme più sottili di negazione del conflitto. Un?altra parola da discutere è conciliazione: per arrivare alla conciliazione noi abbiamo bisogno di elaborare le differenze, non di neutralizzarle, mentre oggi si parla di conciliazione in maniera prematura, mettendo una pietra sopra la storia, come è stato fatto nei Balcani. La terza parola è quella che ha citato lei, dialogo: dialogo significa far convivere due pensieri differenti, vuol dire fare in modo che le due posizioni abbiano più o meno gli stessi diritti di esprimersi e affermarsi. L?istanza dialogica richiede una disposizione a riconoscere e a riconoscersi. Questa è già una forma di cooperazione (che è la quarta parola): la cooperazione non è una promessa, ma un esito della buona gestione del conflitto. Invece vedo che spesso nella cooperazione – rossa, bianca, internazionale – non si opera riconoscendo che la buona gestione del conflitto richiede la difficile e faticosa assunzione delle buone ragioni dell?altro come condizione per arrivare a riconoscere gli spazi della interazione efficace. Vita: È possibile educare al conflitto? Morelli:Ho lavorato molto con le scuole, ma bisogna andare oltre quello che si fa ora. Spesso si fa l?ora di educare alla pace, ma non si vivono i valori di cui si parla, non si è presentisti, non si riconosce che mentre si parla di pace tra i popoli c?è il bambino in un angolo a cui nessuno dei compagni parla. L?azione volontaria richiede il qui e ora come condizione. Come dice il mio maestro Luigi Pagliarani, non esistono i baci già dati. Se io le do il bacio di ieri, quello non è un bacio. Spesso un modo per capire quando una relazione si degrada è questo: quando una relazione vive di baci già dati. Vita: Ci sono segnali per capire quando un conflitto si è risolto? Morelli: Il conflitto non è uno stato, ma un processo. La migliore soluzione per un conflitto è la buona preparazione del conflitto successivo. Chi è Ugo Morelli Docente poliedrico tra teoria e pratica Ugo Morelli è nato nel 1951 a Grottaminarda (Av). Con Michel Foucault e Luigi Pagliarani ha approfondito l?analisi delle relazioni asimmetriche, del conflitto e del potere. Insegna Scienze della mente e Organizzazione aziendale all?università di Trento, dove dirige anche il Master of Art and Culture Management. Di origini ebraiche, ha lavorato in Bosnia e a Nairobi, con padre Kizito Sesana. Ha fondato e dirige Polemos, scuola di ricerca e formazione sui conflitti (www.polemos.it). Morelli è da poco in libreria con Conflitto. Identità, interessi, culture (Meltemi).


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