Formazione

Un umanesimo del cibo

Serve Meno gastronomia, più storia e geografia. La formazione deve puntare a insegnare i legami tra prodotti e territorio.

di Carlotta Jesi

«Innanzitutto il cibo etico cominciate a chiamarlo militante». Per Paolo Bellini, 43 anni, direttore artistico del Mescolanze Food Festival e docente di Educazione alimentare e al gusto per Slow Food, questo è il primo consiglio da dare a chi voglia lavorare nel mercato etico alimentare. E guai a sottovalutare questa sua precisazione linguistica: «Di esperti gastronomici dal linguaggio edulcorato è piena la tv e, in generale, l?Italia. La professionalità si vede anche dai termini che hai il coraggio di usare». Coraggio, appunto: l?anno scorso, quando ha inserito l?espressione ?cibo militante? nel programma del suo festival, Bellini è stato chiamato in questura a spiegare cosa aveva intenzione di fare. Ha risposto prenotando 10 quintali di pomodori biologici attraverso la rete dei gruppi solidali trentini e trasformandoli in passata durante il festival, a cui hanno partecipato 15mila persone. Obiettivo: fissarne il prezzo con mesi d?anticipo e accorciare la filiera tra produttori e consumatori. «Per occuparsi di cibo etico, veramente, bisogna saper guardare oltre il piatto». Studium: Verso dove? Paolo Bellini: Il territorio in cui viviamo più che la lavagna di un?aula universitaria. Oggi si insiste molto sulle tecnologie agroalimentari e sulle tecniche di certificazione, quando invece servirebbe un approccio umanistico nei confronti del cibo. Più umanistico e meno gastronomico. Abbiamo bisogno di una formazione che insegni il legame di un prodotto con la storia e la geografia di un territorio, che insegni ad ascoltare un produttore di cacio dei Pirenei spiegando che è un investimento e non una perdita di tempo. Studium: Investimento di che tipo? Bellini: Ascoltare il pastore, o il contadino, aiuta a capire che nel piccolo si aprono spazi di occupazione. Anche accorciare la filiera produttiva, dar luce e voce ai prodotti dei contadini italiani, è fare commercio equo. A leggere i giornali, o gli studi di mercato, sembra che i contadini oggi debbano diventare politici, manager ed oratori. La realtà, invece, è che devono continuare a fare il loro mestiere e che c?è un gran bisogno di professionisti che lavorino come figure intermedie tra la produzione in loco e la vendita. Studium: Ha in mente un profilo lavorativo in particolare? Bellini: Il gestore di bottega territoriale, per esempio. È un mio sogno, perché queste botteghe oggi non esistono: ma perché non applicare i principi che regolano le botteghe eque e solidali ai prodotti di un determinato territorio? Che senso ha comprare patate siciliane in Trentino? Al di là dei sogni, mancano canali diretti tra produttori e ristoranti. Mancano figure con cultura e capacità economico-commerciali che li facciano parlare. Studium: Parliamo di chi il cibo etico lo cucina. Come giudica la formazione per gli chef? Bellini: È la più lacunosa, specialmente nelle scuole alberghiere. Hanno un?impostazione tradizionale, ma meglio sarebbe dire vecchia: insegnano ricette della cucina tradizionale invece che spingere i ragazzi a inventare ricette nuove con i prodotti del territorio. È un errore perché alla lunga è proprio il rapporto e la comprensione del territorio a rendere speciale uno chef. Penso, per esempio, al grande cuoco catalano Ferran Andria: è diventato famoso per invenzioni tecniche come il cappuccino solido, ma non perde occasione per ricordare la relazione unica che si instaura tra un prodotto e il terreno in cui cresce. Promuovere il biologico, la biodiversità e, in generale, l?etica sono azioni che può fare chi ha la consapevolezza di essere un attore del territorio. E di avere una grande responsabilità sociale. Studium: Crede che questa responsabilità debba estendersi dall?ingrediente etico al prezzo etico? Bellini: Assolutamente sì. In generale, credo che tutta la comunicazione sul cibo etico debba scendere di livello. Studium: Scendere? Bellini: Quando dico scendere non intendo volgarizzare ma, piuttosto, diventare più popolare. Diretta a tutti e non solo ad una élite intellettuale che, in un modo o nell?altro, ha già avuto una maturazione culturale. Ai ragazzi che vogliono fare del cibo etico un mestiere, suggerirei un approccio più semplice. Meno da lobby, del genere «sto lavorando per un consumatore colto e attento» e più diretto alla gente comune. Il rischio, altrimenti, è di ghettizzarsi da soli.


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