Cultura

Rio Bravo: l’avventura di un giornalista italiano

Una notte in galera con chi sogna l'America: li chiamano i “mojados”. Un giornalista è finito nelle maglie della polizia, di Alessandro Armato

di Redazione

Sono le otto di sera e il deserto del Nord del Messico scorre monotono dietro il finestrino. Viaggio su un bus diretto a Nuevo Laredo – sinistra città di frontiera, feudo del narcotraffico e della corruzione – dove l?indomani dovrei visitare la Casa del migrante e incontrare il missionario scalabriniano che la manda avanti, padre Francisco Pellizzari. Ma a 26 chilometri dall?arrivo, presso una grande barriera della Migra – la polizia d?immigrazione – l?autobus viene fermato. Un ufficiale dai baffi neri e gli occhiali scuri, il tipico macho messicano, sale a bordo e comincia a controllare i passaporti e le carte d?identità di tutti i passeggeri. Man mano che ci si avvicina agli Stati Uniti i controlli divengono minuziosi per evitare che qualche centroamericano senza documenti raggiunga la frontiera comodamente seduto su un pullman. Quando arriva il mio turno consegno il passaporto, ma c?è qualcosa che non va. L?ufficiale comincia a sfogliarlo e a un certo punto domanda aggressivo: «Dov?è il permesso di permanenza in Messico?». Si riferisce a un tagliando che si compila in aereo prima di arrivare a destinazione e che, non so come, ho perso. «Vieni con me!», mi intima. Fa cenno all?autista di accompagnarmi a prendere lo zaino nel portabagagli e poi mi conduce in una garitta squallida e sporca, con un piccolo televisore accesso a tutto volume. Le voci che escono dalla tv si mescolano al rombo dei tir che passano dal posto di controllo. All?interno c?è un altro ufficiale, un uomo grasso, dalla carnagione olivastra e lo sguardo a metà tra il truce e il beffardo. Mi guarda di striscio, senza togliere gli occhi dallo schermo, e mi fa segno di sedermi su uno sgabello. Fuori inizia a fare buio. Il bus se n?è andato. Comincio a inquietarmi. Dopo qualche minuto i due ufficiali si parano davanti a me. Cominciano svogliatamente a chiedermi chi sono, dove vado e da dove vengo. Redigono un verbale, ma ho l?impressione che non gli importi niente delle mie risposte. È come se recitassero un copione che conoscono a memoria. L?unico sussulto l?hanno quando dico che vado alla Casa del migrante per un lavoro giornalistico. Nei loro occhi si accende una luce sinistra: «Alla Casa del migrante…», ripete uno di loro. E aggiunge: «Dove ci sono i centroamericani che noi catturiamo». A quel punto iniziano a dire che senza tagliando sono illegale – «esattamente come quei centroamericani» – e che devono farmi portare via da qualcuno della Centrale. Il tempo passa e non si vede ancora nessuno. Inizio a pensare di dover passare la notte nella garitta, ma verso le undici arriva un furgoncino bianco con due agenti in borghese che mi caricano in tutta fretta e ripartono alla volta di Nuevo Laredo. D?un tratto, nel mezzo del nulla, il furgoncino svolta in una strada sterrata avvolta nell?oscurità. Alla radio suona una canzone dei Tigres del norte che non è di buon auspicio: «Dispárame una vez directo al corazón, sparami una volta dritto al cuore», dice. Fortunatamente i due vanno solo a dire qualcosa a un tizio seduto in un?auto parcheggiata. Poi tirano dritto fino al Puente internacional di Nuevo Laredo, il ponte che attraversa il Rio Bravo e unisce il Messico agli Usa, dove c?è la centrale dell?Istituto nazionale della migrazione. Mi fanno scendere e mi dicono che purtroppo il delegado local – il capo – è già andato via e che devo passare la notte al fresco. Al Nuevo Laredo Sono finito nel posto dove portano tutti i centroamericani sorpresi senza documenti nel tentativo di attraversare la frontiera. Ad attendermi, nell?anticamera della cella, c?è un secondino di una certa età, con due spalle enormi e un?espressione stranamente compassionevole. «Perché t?hanno preso?», mi chiede. E poi inizia a rifarmi, dalla prima all?ultima, tutte le domande che mi sono già state rivolte prima. Mentre rispondo, anche lui stila diligentemente un verbale. Alla fine mi dice di togliere i lacci delle scarpe e la cintura, mi dà un paio di coperte sporche e mi indica la porta di uno dei due locali di detenzione. Mi manda nella cella riservata alle donne, che è vuota, tenendomi separato da alcuni ragazzi centroamericani che si trovano nella cella accanto. La grossa porta di acciaio si richiude dietro di me e viene sprangata dall?esterno. Il luogo è surreale: uno stanzone giallo dal soffitto altissimo, con tavolo e letti a castello di cemento, sempre illuminato, giorno e notte, da potenti luci al neon. In alto, irraggiungibile, un televisore avvolto in una gabbia di ferro. Adiacente, senza porta d?ingresso, il bagno. C?è l?aria condizionata e fa freddo. Sono obbligato ad avvolgermi nelle coperte sporche, le stesse in cui si sono avvolti prima di me tanti centroamericani che vengono presi e rispediti a casa lungo un itinerario tortuoso che inizia qui, passa per Città del Messico e finisce in Chiapas, alla frontiera con il Guatemala. Alle otto del mattino la guardia mi porta la colazione: uova al prosciutto con i soliti fagioli rifritti e succo d?arancia. Le ore passano, ma il delegado che deve darmi la multa e farmi uscire non si vede ancora. Nel frattempo è arrivata una ragazza centroamericana con in braccio una bimba di pochi anni e, per fare posto a loro, mi spostano nella cella degli uomini. Ce ne sono tre: Kevin, Elí e Beto. Tutti honduregni (come la maggior parte dei migranti centroamericani in quest?ultimo periodo). I primi due sono già lì da un paio di giorni, Beto l?hanno appena preso mentre si aggirava per Nuevo Laredo in cerca del pollero, il «passatore», che doveva aiutarlo a valicare il confine. Nonostante tutto, sono di buon umore. Si godono il cibo, le coperte, la televisione. «Qui si sta bene», dice Kevin. «A Città del Messico, il centro di detenzione per gli immigrati fa schifo. E in Chiapas è ancora peggio. Qui ti trattano bene ed è tutto pulito perché siamo vicini agli Stati Uniti e i messicani ci tengono a fare bella figura. Vogliono fare vedere che rispettano i diritti umani. Ma altrove ti picchiano senza pietà. Adesso aspettano che si riempia e poi ci mandano a Città del Messico tutti in una volta sola». Li ascolto raccontare del loro viaggio e di come li hanno catturati: treni presi al volo, attraversamenti di pantani e fogne, notti al freddo sulle montagne senza cibo e senza acqua, assalti di ladroni per derubarli delle loro poche cose, la carità della popolazione locale, le persecuzioni della polizia e la ferocia dei garroteros (le guardie private dei treni), che li picchiano senza pietà, a volte fino ad ammazzarli. Mentre li ascolto mi rendo conto che dietro il fenomeno dell?emigrazione c?è tutta un?epica di viaggio che sta nascendo e dalla quale prenderà corpo una nuova cultura. Questi pensieri vengono interrotti dall?arrivo di un nuovo secondino, meno amabile del precedente, che ci obbliga tutti a spogliarci e a fare la doccia. È una questione di igiene. Lo prescrive il regolamento. Kevin, Elí e Beto mi guardano e non riescono a capire come mai sono lì con loro in quella situazione. «Tu vali di più di noi», provano a spiegare sotto l?acqua della doccia. «Per ognuno di noi i poliziotti prendono cento dollari; per te devono prenderne molti di più perché vieni da un Paese europeo». Mi sembra che il loro ragionamento non stia in piedi, ma una cosa è certa: la polizia messicana è corrotta fino al midollo e agisce in funzione del proprio tornaconto. Dopo la doccia riprendono i racconti. Il verbo agarrar, afferrare, è quello che ricorre più insistentemente: saltare per «afferrare» un treno merci in corsa, oppure tuffarsi da un vagone per «afferrare» quello successivo e sfuggire così alle percosse dei garroteros; o ancora «essere afferrati» e successivamente pestati a sangue da qualche guardia. In fin dei conti, dal verbo agarrar dipende buona parte del successo o del fallimento del viaggio di un migrante centroamericano. L?orologio segna le due del pomeriggio. Ormai comincio a chiedermi se dovrò passare un?altra notte in cella. Ma nel giro di qualche minuto, finalmente, arriva il delegado. Sorride. Mi dice che uscirò presto e che la multa è di 4.800 pesos (circa 450 dollari, pari a cento giornate di salario minimo messicano), poi si dilegua nuovamente. L?amico dei ?mareros? Un paio d?ore dopo posso uscire. Auguro buona fortuna ai tre honduregni e me ne vado. Ma manca ancora l?ultimo atto della farsa. L?ufficiale-capo dell?immigrazione mi aspetta nel suo studio, seduto dietro una grande scrivania assediata dalle scartoffie. È un ometto basso e tarchiato, coi capelli neri leccati indietro, gli occhi marroni molto vispi, la pelle morena e i tratti vagamente indigeni. Il delegado mi fa rispiegare per filo e per segno chi sono, da dove vengo, dove vado e perché. Scrive tutto al computer e poi, senza che gli abbia rivolto alcuna domanda, comincia a parlare. «Così vai alla Casa del migrante, eh…», dice sorridendo. «Il fondatore era un prete che si ispirava alla teologia della liberazione?». Mi lancia un?occhiata indagatrice al momento di pronunciare questo termine; dev?essere convinto che sia un seguace di questa corrente di pensiero. «Prestava aiuto indistintamente a tutti quelli che arrivavano qui, anche ai mareros, quelli delle bande, e ai peggiori delinquenti. Era uno che andava nelle carceri a soccorrere gente irrecuperabile. Noi siamo consapevoli della fragilità e della debolezza dei migranti e qui, l?hai visto, li trattiamo bene. Però i mareros non ci piacciono e non li vogliamo». «Forse non lo sai», continua, «ma Nuevo Laredo oggi è il posto più pericoloso della frontiera. È un inferno. Ci sono morti tutti i giorni, specialmente tra i narcotrafficanti che si ammazzano tra di loro. Comunque, se cercavi i centroamericani », sdrammatizza, «sei finito proprio nel posto giusto!».

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