Famiglia

Mio figlio è un messicano

Mio figlio è un messicano. È basso, ha i capelli neri neri e lisci e due baffi neri anch’essi gli spiovono giù lungo le labbra...

di Luca Doninelli

Dieci inediti sul rapporto ?Genitori e figli?

Anche quest?anno ?Vita? d?estate vi tiene compagnia con una serie di racconti scritti per noi dai più apprezzati giovani scrittori italiani. Il filo conduttore sarà il rapporto tra padri, madri e figli, un rapporto che vive una crisi che i discorsi degli intellettuali spesso non riescono a comprendere. Noi siamo certi, però, che la concretezza degli scrittori, il loro bisogno di fare i conti con l?unicità delle cose e delle parole e non con la generalità dei concetti, possono dare un contributo decisivo in tal senso. Questa settimana pubblichiamo ?Mio figlio è un messicano? di Luca Doninelli: nato a Leno (Brescia) nel 1956, ha vinto il premio Selezione Campiello nel 1992 e il superpremio Grinzane Cavour nel 1994. Prossimamente toccherà invece ai racconti di Bruno Rinaldi, Sandro Onofri, Aurelio Picca, Vincenzo Gambardella, Dario Voltolini, Tiziano Scarpa, Paola Capriolo, Davide Rondoni, Chiara Zocchi.

Mio figlio è un messicano. È basso, ha i capelli neri neri e lisci e due baffi neri anch?essi gli spiovono giù lungo le labbra. Mio figlio ha la barba di sei, sette giorni, puzza di sigaro, porta l?ultimo bottone della camicia slacciato e tiene le maniche rimboccate. È scuro di carnagione – insomma è un messicano, e lo è anche nel vestiario, dove dominano il nero e il rosso scuro. Non è una bellezza. Spesso, quando si toglie il sigaro di bocca, un filo di bava si stacca dal labbro, come un filo di ragno, allungandosi tra il labbro gonfio e l?estremità del sigaro.

Da molto tempo entra in casa senza parlare, non saluta, non dice grazie, e io non posso sapere, una volta varcata di nuovo quella porta, dove se ne andrà.
A dire il vero, nemmeno quando è in casa io so veramente dov?è. So di rendermi ridicolo nel dire questo, ma è così. La casa in cui vivo è la stessa in cui vive mio figlio? Indubbiamente, i muri sono gli stessi, una sola è la cucina, uno il bagno, e uno il soggiorno. Ma basta che ci sediamo – succede ancora, di tanto in tanto – uno accanto all?altro a guardare una partita di calcio alla televisione perché io mi domandi:

?Ma noi due – noi due – siamo davvero vicini?? Non intendo riferirmi alla lontananza spirituale, o al fatto che tra noi non si parli più – no: mi riferisco proprio al luogo, al qui. Quando lui dice io sono qui, intende la stessa cosa che intendo io? È lo stesso qui? Sembra che abbia sempre qualcosa da fare. Entra in casa di fretta, va a rovistare in qualche cassetto, oppure mangia stando seduto al frigorifero, o si arrabbia perché non trova qualcosa e incolpa noi – me e sua madre – di avergliela nascosta.

Nascondergli qualcosa io! Ma se il più delle volte non conosco nemmeno il significato delle parole che usa. Le cose che perde hanno nomi così strani!
Non lo vedo mai tenere qualcosa in mano. Mi consolerebbe vederlo uscire con una scala, un martello o una tenaglia. A volte mi auguro che vada a rubare – no, è troppo poco agile per fare il ladro. Forse è un truffatore, o un ricettatore. Se fosse un ladro, sarei più contento, non lo sentirei così lontano da me. Se invece è un ricettatore, allora è finita.
Per i ricettatori le cose sono merce, sono soltanto l?equivalente di un prezzo. Per i ladri, invece, le cose si tengono prima in mano. Finché stanno in mano, riscaldate dalla mano, non sono soltanto merce.

Dio mio! Le mani di mio figlio che stringono un oggetto rubato, le povere sue mani dure, le righe di sudicio che penetrano la linea della vita, quella del cuore, quella della mente! Se tutte le cose che perde non avessero quei nomi così bizzarri, io non penserei a questo modo – non passerei, voglio dire, ore e ore del giorno a pensare alle sue mani, per risentire il loro calore umido di quando lui era bambino, e stringeva la mia mano con la sua. Ora quella mano è destinata a donne d?occasione, a oggetti dal nome sconosciuto. È un pensare penoso, il mio.

Da tanto tempo io e mia moglie mangiamo da soli, sia a mezzogiorno che a cena. È come se lui fosse morto, almeno in parte. Lo è nelle nostre conversazioni – perciò è come se stessimo sempre zitti. Ieri d?un tratto mia moglie si è voltata verso di me e mi ha detto: ?Ehi, professore?
?Beh?
Ha aspettato che dicessi qualcosa; poi, visto che restavo in silenzio col mio beh, si è messa a ridere.
?Iago…?
Iago è il nome di mio figlio.
?Perché hai detto Iago?? ho chiesto io, allarmato (sempre mi sento in allarme, quando viene nominato mio figlio).
?Iago dice che sei tu che gli nascondi tutto? (È vero: è soprattutto me che incolpa).
?Sì? ho risposto.
?E se fosse vero??

Sapevo bene che lo diceva per provocarmi, senza altro scopo che questo. Io però, che sono professore, e tendo perciò alla riflessione, a queste parole mi sono seduto col gomito appoggiato al tavolo di cucina, il mento sul pugno, allo scopo di non dare per scontate le parole in realtà un po? bizzarre di mia moglie. Del resto, le donne a una certa età impazziscono più facilmente degli uomini.

Non avevo ancora cominciato a pensare seriamente, quando lui è entrato in casa con un grande sombrero in testa. Si portava dietro, simile a una scia di odore, l?allegria per qualcosa che era accaduto prima, fuori; e non c?è stato bisogno di guardarlo per capire che, con l?ingresso in casa, quel sorriso che gli aveva illuminato i denti aveva subito cominciato ad andarsene. Sì, fuori di lì c?era stato qualcosa di allegro, che però non mi riguardava: era come se appartenesse a un altro mondo, al mondo dei morti.

Dopo un?oretta, ecco che arriva in casa nostra la vicina. Quando fa molto caldo, teniamo l?uscio di casa aperto, e il soggiorno di casa è separato dalla strada solo da una tenda di tela verde. La nostra vicina, una pettegola di nome Maria, ha un modo molto caratteristico di scostare quella tenda. La osservo sempre quando esce: è come se spostasse delle frasche – questo dimostra che è una donna inesorabile, e se vuole mettere in atto i suoi propositi pettegoli lo farà senz?altro.

Ecco dunque la sua mano, le sue dita serrate come quelle di una scimmia.
?A proposito di Iago? dice.
In realtà, non stavamo affatto parlando di lui. Tuttavia la sua espressione è esatta, perché in effetti lei era venuta solo per questo.
E poi cosa dice? Non ha importanza quello che dice. Io – ecco- vedo le parole, sì!, improvvisamente vedo le parole uscire dalla sua bocca: sono parole brutte, senza nessuna grazia. Le escono dalla bocca e subito scappano in un angolo della stanza, come tanti animaletti abituati al bastone.

Non affrontano me, né mia moglie. Non si avvicinano coraggiose alle nostre orecchie, non vogliono fronteggiarci. Esistono parole capaci di ricacciare in gola le parole altrui: ora lo so, non è un semplice modo di dire, ma qualcosa che accade nella realtà. Ma queste sue parole non si lasciano nemmeno ricacciare in gola, perché scappano veloci, volgendo sempre all?ascoltatore le gracili spalle.
Mio figlio non parla mai, invece, ed è forse anche per questo che certe volte lo penso come se fosse morto.

Ma non è morto, si è solo trasformato. Da tenero bambino, vispo ma gentile si è trasformato in un messicano che puzza di sigaro, con la bocca bavosa spesso bagnata di tequila. E quando si è trasformato – nel momento, voglio dire, in cui questa trasformazione ha avuto luogo – io, semplicemente, non c?ero. Non ero presente. Qualcuno era presente, ma non ha visto, o se ha visto ha pensato che tutto andava bene, che tutto era ok, come si dice.
Del resto, se non è tuo figlio, in che senso si può dire che il vispo bambino di prima era meglio del messicano di adesso? Diranno: era la sua strada, era giusto che la percorresse perché era la sua. Bugiardi. Solo perché io non c?ero, si sono permessi di fare tante storie su mio figlio – li sento, non sono mica sordo, e anche se non esco c?è sempre qualcuno che mi riferisce quello che si dice.

Solo io dovevo trovarli là quando lui crebbe, solo suo padre doveva essere presente, in qualche modo. E suo padre dov?era? E io dov?ero? Per quanto mi torturi il cervello per cercare di sapere cosa diavolo stessi facendo mentre mio figlio cresceva, non c?è niente da fare: non me lo ricordo più. Ma ho il sospetto che sia stato proprio il mio tradimento a farmi perdere la memoria.

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