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Caso Welby: il film che vorremmo vedere

Ci sono due cose intollerabili nello parlare di etica di queste settimane: la protervia di chi sostiene di avere soluzioni in tasca e l’uso mediatico che si sta facendo dei casi umani ...

di Giuseppe Frangi

Ci sono due cose intollerabili nello strabordante parlare di etica di queste settimane. La prima è la protervia di chi sostiene di avere soluzioni in tasca.La seconda, è l?uso mediatico che si sta facendo dei casi umani: si usa del destino drammatico delle persone come chiavistello per scardinare le coscienze. Per plasmare l?opinione pubblica a colpi di sentimenti. Con formula efficace, qualcuno ha parlato di «accanimento mediatico». E non si può non pensare ad un?intenzione malevola vedendo le immagini di Piergiorgio Welby, con il suo corpo inerte e il suo respiro faticoso, replicate per intere settimane nei Tg (per poi subito dopo lasciare spazio, con assoluta nonchalance, all?idiozia dominante nelle tv). C?è il senso di una volgare regia, di una volontà di imporre al popolo un pensiero e una sensibilità che al fondo non gli appartiene. Come se si volesse risolvere in maniera fondamentalmente dispotica, una questione delicata che ha a che fare col mistero del vivere e del morire. Perché è chiaro che Welby non interessa come persona, interessa come caso scuola per conquistare un consenso politico. Se interessasse come persona, certamente assisteremmo ad un film molto diverso. Ed è quello che ora proviamo ad immaginare.

Piergiorgio Welby è un uomo di 60 anni (ne dovrebbe compiere 61 tra poco, il 26 dicembre). Da 27 è sposato con una donna con la quale ha condiviso tutto e che oggi sta al suo fianco con un amore e una costanza per cui non ci sono aggettivi. È stata lei, la signora Mina, dieci anni fa a prendere la decisione che poi avrebbe aperto un caso: Piergiorgio, già attaccato dalla distrofia, era stato colto da un malore. Solo una tracheotomia e un respiratore avrebbero potuto tenerlo in vita. Oggi i giornali insinuano malevolmente che lei non impedì la cosa. Lei (immaginiamo) in realtà la volle: non si perde a cuor leggero l?uomo che si è tanto amato. Si fa di tutto per trattenerlo al proprio fianco, di sentire il suo respiro, la sua voce, la sua intelligenza in azione. Così funzionano le cose tra persone, tanto più se si è marito e moglie.

Passano dieci anni da quel drammatico luglio 1997 e le condizioni di Piergiorgio continuano a peggiorare. Lei è sempre lì al suo fianco, a tenerlo in ordine, ad alimentarlo con una pappa studiata apposta (la Pulmocare) per il sondino, a trascrivere fedelmente le lettere dettate a battiti di ciglia. Lui muove solo quelle, ma ha il cervello capace di intuizioni geniali. E i suoi testi scorrono al ritmo di una scrittura affascinante. Nonostante le spaventose condizioni del suo fisico, la vita gli ha riservato un?intelligenza fuori dalla norma. Così il caso di Piergiorgio esce dai muri di quell?appartamento romano perché i media arrivino in quantità. Nelle case, tutti imparano a familiarizzare con quell?uomo costretto a una vita impossibile, ma dall?aspetto forte, dall?orgoglio intatto, dalla dignità che desta ammirazione. E tutti si affezionano a quell?uomo, si chiedono che cosa si possa fare per lui. Come alleviare le fatiche della moglie e a come sia possibile fargli passare quel desiderio di morte. Compito difficile. Forse impossibile. Perché lui, di fatto, si è già arreso. E forse non resta che chinare dolorosamente la testa davanti a quel mistero. Ma subito il pensiero e il cuore corrono ai tanti come lui o quasi come lui. E all?idea di poterli acciuffare in tempo, di non farli sentire soli. Di far sentire il nostro interesse per la loro vita, per quanto sia complicata dal male. Questo è il film su Welby che l?Italia potrebbe girare. Se ricatti e protervia ideologica lasciassero ancora un po? di spazio all?umano?

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