Formazione
Peacekeeper, impara la guerra
Da Pisa per il mondo: addestramenti nei campi della folgore con simulazioni di attacchi ed esplosioni. La scuola Sant'Anna aggiorna i suoi corsi, adeguandosi ai tempi che cambiano
di Chiara Sirna
Una volta si limitavano a osservare e denunciare, oggi hanno pieno mandato di difesa e offesa. I peacekeeper moderni devono essere in grado di fronteggiare gruppi armati, fermare massacri o attaccare una fazione che non rispetti gli accordi. In altre parole, combattere. Cambiano i ruoli e di conseguenza cambia anche la formazione. Lo spiega Andrea de Guttry, esperto di diritto internazionale, direttore della divisione Alta formazione della Scuola superiore Sant?Anna e del master in Human rights and conflicts management, ma soprattutto peacekeeper provato, con anni di esperienza e tre missioni sulle spalle, in Sudafrica, Russia e da ultimo Afghanistan, nel ruolo di assistente tecnico e coordinatore, incaricato del monitoraggio elettorale. «L?aggiornamento», spiega, «deve essere continuo, con grande apertura sia sul versante dell?addestramento alla sicurezza che su quello dei compiti umanitari».
Studium: Qualche esempio pratico?
Andrea de Guttry: Addestramenti nei campi della Folgore con simulazioni di attacchi, esplosioni di bombe, incursioni notturne, sminamento dei campi. Devono capire come agiscono i militari.
Studium: Com?è cambiato il peacekeeping?
de Guttry: È nato per monitorare il rispetto degli accordi di tregua, ma da almeno 15 anni ha anche compiti umanitari, che vanno dal soccorso al monitoraggio delle elezioni, fino alla tutela dei diritti umani. Prima i soli attori del peacekeeping erano i militari, oggi anche la polizia e i civili, perché le operazioni sono sempre più vicine alla ricostruzione dell?ordine. E i promotori invece sono a decine, organizzazioni internazionali che competono per le commesse.
Studium: È eccessivo parlare di privatizzazione?
de Guttry: Un termine un po? forte, ma in parte è così.
Studium: Quanto è pericolosa la marginalità dell?Onu?
de Guttry: Il problema è che nelle aree interessanti si crea la fila di soggetti interessati. Nelle altre invece resta solo l?Onu: quelle delle Nazioni Unite ormai sono missioni impossibili, con la rogna. E se non riesce a portarle a termine, scattano subito le accuse di incapacità. Nelle zone succulente è tutto diverso.
Studium: Succulente per interessi privati?
de Guttry: Magari anche solo perché strategiche. Guardiamo i Balcani, sono vicini a noi, nessuno ha interesse a che quell?area sia instabile. Ciò non toglie che ci possono essere di mezzo anche beni interessanti. In Iraq c?è una coalizione internazionale, in Indonesia invece c?è solo l?Onu perché il continente asiatico è privo di organizzazioni simili di peacekeeping, non ha una cooperazione regionale forte.
Studium: Il massacro di Srebrenica ha cambiato volto al peacekeeping. Da allora le forze di pace possono intervenire anche con le armi. Fino a che punto è un bene?
de Guttry: Dopo Srebrenica sarebbe inaccettabile se i peacekeeper non potessero intervenire. Ed è anche vero che da quando le cose stanno così è diminuito l?uso della forza: le controparti sanno che scherzano con il fuoco. Il problema però è che quando c?è un ?mandato muscolare?, così si chiama in gergo, bisogna dimostrare almeno una volta di saperlo usare. In Iraq accanto all?Onu c?è la coalizione internazionale. Il sistema è certamente più efficace, ma chi ha il controllo sulla sicurezza, di fatto ha sempre il coltello dalla parte del manico. Questo spiega anche perché Kofi Annan non vuole ampliare la missione. L?Onu è sempre lì a chiedere in ginocchio agli americani cosa fare. Questo genere di equilibri funziona solo se c?è la stessa agenda politica.
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