Non profit

Pakistan, quelle tende a 15 sotto zero

Sono ancora 3,3 milioni le persone senza casa. Hanno trascorso un inverno da incubo. Le testimonianze di Intersos, Save the Children, Croce Rossa, Onu e Turkish Red Crescent

di Pablo Trincia

Alle 8 e 50 dell?8 ottobre 2005, Isma Shabir era intenta a consultare un libro nella biblioteca dell?università di Muzaffarabad quando, non lontano, la placca eurasiatica e quella indiana si sono scontrate provocando uno scossone che ha fatto tremare i muri dell?edificio. La giovane 22enne è uscita di corsa portando con sé il fratello minore, e si è salvata la vita. Ma per i genitori, rimasti in casa con alcuni parenti, non c?è stato nulla da fare: le mura non hanno retto, seppellendoli insieme ad altre 73mila persone in un terremoto che verrà ricordato tra i più terribili della storia di questo paese.

Oggi, a quasi quattro mesi di distanza, Isma ha trovato lavoro presso l?organizzazione Turkish Red Crescent, insieme alla quale si occupa di uno degli aspetti più trascurati e difficili del dopo terremoto: non la ricostruzione di case e infrastrutture sbriciolate dagli scossoni di magnitudo 7,6, ma quella ?interiore? di decine di migliaia di persone psicologicamente affette da gravi forme di depressione e attacchi di panico. «E’ un mestiere difficile e i soldi non bastano per i miei studi», racconta Isma al telefono a Vita, «ma almeno posso mantenere i miei fratelli più piccoli, con i quali divido una tenda. Le operazioni di aiuto procedono bene, ma il terremoto ha causato gravi danni psicologici a molte persone che sono incapaci di trovar la forza per rialzarsi».

Se si scorrono indietro le pagine della storia geologica di questa regione, è difficile trovare terremoti con una forza devastatrice simile a quello che ha spaccato in due un Kashmir già diviso dalla sanguinosa scissione politica indo – pakistana.
Quello del Gujarat, avvenuto nella vicina India nel 2001, fece circa 20mila morti, come quelli causati dal sisma che rase al suolo la città pakistana di Quetta, al confine con l?Afghanistan, nel 1935.
I numeri parlano chiaro: oggi 3,3 milioni di pakistani nelle regioni montagnose del Kashmir non hanno più una casa e i 6,4 miliardi di dollari chiesti dal Pakistan per far fronte alla catastrofe non mettono al sicuro intere tendopoli isolate e minacciate dalla pericolosa caduta delle temperature a 10/15 gradi sotto zero.

«E’ il problema principale degli aiuti», ammette da Islamabad Layla Berlemont Shtewi, portavoce dell?Icrc, la Croce Rossa internazionale, «slavine e frane hanno interrotto le vie di comunicazione e la neve ha bloccato a terra i nostri elicotteri in più di un?occasione, rischiando di lasciare le zone più isolate senza aiuti per alcuni giorni». Un portavoce dell?Unocha, il Coordinamento per gli affari umanitari dell?Onu , ha detto a Vita che dei 550 milioni di dollari richiesti ne sono arrivati circa 300 milioni, ovvero il 60%. «Eppure ci sentiamo ottimisti», le fa eco Amena Kamaal, portavoce dell?Undp, il programma di sviluppo dell?Onu. «Siamo ancora in una fase di emergenza che probabilmente terminerà con l?inverno. Poi sarà la volta della ricostruzione».
Ma ci sarà bisogno di molto lavoro, almeno secondo Lucio Melandri, direttore operativo di Intersos: «L?entità di questo terremoto è stata sottovalutata dalla comunità internazionale», dice Melandri. «La risposta, inizialmente, è stata piuttosto debole. Anche se in questo momento la situazione è migliorata, bisogna comunque essere cauti, non si è ancora superata la fase critica. Per quella successiva bisognerà sì attendere la fine dell?inverno, ma sarà necessario soprattutto un impegno serio da parte del governo pakistano nella ricostruzione di infrastrutture adeguate a una zona sismica come quella».

Ad andarci cauta è anche Francesca Petrecca di Save the Children, che Vita ha raggiunto telefonicamente in Pakistan: «C?è ancora un grosso problema di coordinamento tra le ong. Questo ha generato lacune in alcune regioni dove risulta che gli aiuti siano arrivati, quando in realtà è arrivato molto poco. è normale che accada quando non ci sono standard comuni di valutazione». La strada per la ricostruzione, dunque, è ancora lunga.

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