Famiglia
A Ragusa non piacciono le donne (in politica)
Il nuovo statuto della Provincia di Ragusa riduce a una dichiarazione d'intenti l'accesso delle donne all'elettorato passivo. E altrettanto male va con altri statuti regionali.
Peggio della battaglia di Verdun. Quella per l’emancipazione delle donne e la loro equa partecipazione alla società è una vera guerra di posizione, dove ogni metro conquistato rischia di essere subito perso.
E’ successo con l’approvazione da parte della Provincia di Ragusa di un nuovo statuto che a colpi di sinonimi ( e la semantica nei documenti non è questione di semplice forma) ridimensiona da diritto a concessione discrezionale l’equilibrio di accesso delle donne alle cariche del consiglio provinciale.
Lo statuto modifica negli articoli 41 e 47 tutte le formule di pari opportunità, sostituendo frasi come “sarà garantita l’equilibrata presenza di uomini e donne” con “sarà ricercata”, mentre il Presidente del consiglio provinciale non dovrà più “assicurare” un’equilibrata presenta di uomini e donne nella Giunta ma ne avrà solo “la facoltà”, e via così edulcorando.
Se ne è accorta l’unico consigliere provinciale donna su 25 eletti (e nessuna assessore), Venerina Padua (Margherita) che ha avviato un tenace quanto disperato tentativo di fare cordata in difesa dei principi espressi nel vecchio statuto.
Ma inutilmente. Il documento è stato recentemente votato e approvato in maniera “bipartisan” dalla maggioranza del Consiglio, con solo tre voti contrari inclusa Padua.
Dunque, in quel di Ragusa non sta bene che una “signora” frequenti il Consiglio provinciale? Forse si, visto anche il linguaggio da caserma da parte degli eletti amministratori che ha accompagnato la discussione del provvedimento.
Forse c’è un’altra verità, più prosaica ma rivelatrice.
Il precedente statuto prevedeva la possibilità di aumentare il numero di assessori da 6 a 8, ma solo se una carica fosse stata riservata ad una donna. Con gli introdotti cambiamenti questo accorgimento di equilibrio della rappresentanza viene meno, e i signori consiglieri hanno ottenuto due nuove poltrone per “gli amici”.
E’ andata male anche in Valle D’Aosta dove un pur timidissimo e prudente tentativo di inserire una parità di rappresentanza nelle cariche elettive, benché sia stato approvato è stato poi cassato.
Ma questa volta il veto è venuto direttamente dal Consiglio dei Ministri, dove su indicazione del Ministro La Loggia si è fatto appello alla sentenza della corte costituzionale del 1995 che giudicava le “quote” un’iniquità per l’elettorato passivo.
La “quota” in questione parlava semplicemente di “garantire la presenza di uomini e donne”, il che vuol dire che sarebbe bastata anche una sola donna in tutto il Consiglio regionale (come spesso accade).
La costituzionalista Lorenza Carlassare ritiene il ricorso alla sentenza del 1995 del tutto superato dalla riforma del titolo V della Costituzione che ha introdotto per le Regioni un esplicito principio di parità nelle leggi elettorali e la richiesta di introdurre meccanismi di azioni positive (leggi 2 e 3 del 2001).
Intanto questa settimana si discute in Senato la riforma dell’art 51 della Costituzione che già tratta di parità tra cittadini dell’uno e dell’altro sesso nell’elettorato passivo ma non incoraggia in modo specifico l?accesso delle donne alle funzioni pubbliche e alle cariche elettive.
Una riforma che sempre secondo Carlassare è importante ma non è determinante rispetto al passato. Invece è indispensabile portare avanti quanto attribuito alle Regioni e non fare passi indietro sul piano pratico mentre si ribadisce semplicemente quello dei principi.
Info: commissione parità
www.palazzochigi.it/cmparita/
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