Famiglia
Sui minori, troppe parole
Lintervista: Parla Giovanni Bollea, tra i padri della neuropsichiatria infantile
di Alba Arcuri
Essere bambini è una malattia da curare? Infanzia e adolescenza, rappresentano un problema da risolvere? No. Non è così. E a dirlo è uno dei padri della neuropsichiatria infantile in Italia, il professor Giovanni Bollea. Lo incontriamo in occasione del decennale di Telefono azzurro, associazione che ha sempre sostenuto con le sue riflessioni e la sua dedizione.
Troppe parole non giovano alla soluzione dei problemi. Questa è a considerazione di fondo del professore, che di fronte alle violazioni nei confronti dei minori e al disagio giovanile, si dice stanco dei discorsi cui non seguano le soluzioni concrete. Stanco dell?approccio troppo problematico da parte degli esperti, che serve solo ad aumentare le ansie di chi con i bambini convive ogni giorno.
Ma allora cosa altro si può aggiungere?
«Parlare del pianeta infanzia vuol dire tutto e niente. Ho la sensazione che noi ?tecnici? parliamo troppo. Magari buttiamo lì una proposta, una considerazione su un problema, che a volte non tiene neppure conto di tanti fattori. Diamo materiale a voi giornalisti per dibattere, e magari ci lamentiamo perché avete dato informazioni parziali. Poi altri intervengono, nasce il ?caso?. E i problemi si gonfiano e cominciano a far paura. I genitori alzano le braccia in segno di resa: è il mestiere più difficile, dicono. Invece non è vero. Non c?è mestiere più facile di quello dei genitori. La mia biblioteca è piena di libri sulla difficoltà di essere madre o padre: solo a guardarli c?è da spararsi».
Meglio tacere, allora?
«Meglio distinguere tra le parole e i programmi. È poi un errore parlare di minori come se si trattasse di un pianeta a se stante, staccato da tutto il resto. Bisogna affrontare le tre questioni fondamentali che stanno intorno al bambino e che costituiscono il suo mondo, che è poi il nostro mondo: famiglia, scuola, società. Se non ci si occupa di questi tre ambiti, che senso ha dibattere sui minori, produrre piani e carte dei diritti per tutelarli»?
Perché allora non dà il buon esempio?
«Siccome il mio mestiere è quello di occuparmi dell?aspetto psicologico, mi impegno a fornire alcune indicazioni programmatiche per la famiglia. Sto preparando un documento in cinque punti. Si tratta di proposte per risolvere in modo concreto i problemi dell?essere genitori. E sfido le istituzioni dello Stato italiano, con le quali peraltro sto avviando un confronto, a trovare altrettanti punti programmatici nei settori che gli competono. Il fattore lavoro, ad esempio, non è cosa da poco conto. Difficile che non vi sia disagio giovanile quando non ci sono prospettive di occupazione».
Qualche anticipazione sul contenuto delle sue proposte?
«Non si aspetti uno scoop. La semplicità nell?atteggiamento tra genitori e figli è la prima cosa».
Che cosa ne pensa della tesi dello psichiatra americano Donald Cohen, per cui bisognerebbe ripartire dalla semplicità dei nostri nonni?«È vero. L?affettività spontanea con cui i nostri nonni amavano i propri figli, la naturalezza nel rapporto dovrebbero essere un esempio. Ma la società è anche cambiata. Per questo torno a ripetere che occorrono programmi concreti per sanarla nel suo complesso. Il bambino non è isolato da essa».
Allora essere bambini non è una malattia?
«Per fortuna no. Ma questa obiezione dovrebbe fare riflettere. Perché oggi evidentemente è così».
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