Volontariato

La solidarietà nel carrello

Osservatorio delle buone pratiche sociali, un fenomeno sempre più in crescita: il mercato stesso chiede più attenzione alle cause di solidarietà...

di Sara De Carli

Domenica, ore 18,30. Per uscire dal parcheggio dall?Ikea di Corsico, alle porte di Milano, e imboccare la tangenziale Ovest, 600 metri in tutto, ci vogliono venti minuti. Sembra una processione. D?altronde Domenico De Masi, docente di Sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma, la grande distribuzione la spiega così: nel Medioevo c?erano le cattedrali, oggi ci sono gli ipermercati. «Ci si va in pellegrinaggio, si socializza, si mangia, si compra, ci si distrae. Ci si emoziona, e si fa qualche atto di filantropia. Ma tutto ha un solo obiettivo: i soldi. La Chiesa faceva esattamente la stessa cosa». De Masi forse è il più cinico, ma sociologi ed economisti sono concordi nel rilevare che le iniziative di carattere sociale hanno ormai un ruolo fondamentale nella definizione del valore di una marca. «Poco importa se la scelta di creare linee biologiche o equosolidali, piuttosto che di devolvere parte dei profitti ad associazioni di promozione sociale di vario tipo, dalla squadra di calcio locale alla ong internazionale, derivi da un mix di business e ideali autentici piuttosto che da considerazioni di puro calcolo», dice Enrico Finzi, presidente dell?istituto statistico Astra/Demoskopea. «La cosa interessante è che il risultato è il medesimo: il mercato chiede alla grande distribuzione che essa abbia anche un?attenzione sociale, e la grande distribuzione non può non tenerne conto. Qualunque sia la causa, c?è solo da essere felici». Chiaro che le differenze ci sono. «Perché per le imprese capitalistiche la responsabilità sociale è un mezzo e il profitto il fine, per le coop invece la responsabilità verso i soci è il fine e il profitto un mezzo», spiega la professoressa Vera Negri Zamagni, che sui 150 anni della cooperazione di consumo ha scritto da poco un libro. «Coop da sempre punta sulla garanzia del prodotto, garantisce il comportamento etico dei suoi fornitori, è stata fra i primi a realizzare la tutela ambientale. In più è un?esperienza di democrazia economica. La sua è più che altro una mutualità interna, anche se non mancano esempi di mutualià esterna, soprattutto nel campo dell?educazione alimentare». Perché alla gente – ai consumatori nello specifico – non basta più un rapporto puramente economico con il punto vendita di fiducia? «Non è mai stato così, proprio per quella parola, ?fiducia? che lei usa», risponde Finzi. «La grande distribuzione è il punto finale della filiera. Il consumatore, scegliendo una marchio piuttosto che un altro, sceglie chi sceglie al posto suo lungo tutto il percorso produttivo. Non è una cosa da poco. Il marchio distributivo oggi deve garantire la qualità complessiva dei suoi prodotti, e la fiducia è questione di testa, di pancia e di cuore». Il consumatore cioè predilige chi sente come affine, premia il distributore che ha criteri di scelta più simili ai suoi: se mi somiglia in sensibilità e voglia di solidarietà, pensa, è più facile che mi somigli anche nelle mie esigenze di qualità e di sicurezza. Esselunga con la linea equosolidale; Sma-Auchan con la linea di prodotti per l?infanzia ?Rik&Rok?, gemellata con Amici dei bambini; DìperDì con la raccolta fondi per il San Raffaele; Coop Lombardia con la Carta Equa, che aggiunge un 1% al valore della spesa e lo gira su una carta che la Caritas dà a famiglie bisogno… è con iniziative di questo tipo (non con il contenimento dei prezzi) che la grande distribuzione ha consolidato la propria posizione di mercato. Persino in periodi di congiuntura economica sfavorevole. Giampalo Fabris oggi è preside di Scienze della comunicazione all?università Vita e Salute, e nel 2002 è stato fra i sostenitori della comparsa dell?equo sugli scaffali di Esselunga: «È folle disperdere il valore della marca in una corsa al primo prezzo», dice. «Il rapporto dell?individuo con le merci è totalmente cambiato, nessuno si accontenta più delle performance del prodotto. Tutti noi consideriamo le merci nel loro valore intangibile: tutti i nostri acquisti oggi hanno un valore affettivo, di prestigio, di comunicazione della nostra identità. Per questo anche in un momento di crisi la marca resiste. E nel determinare il valore della marca le iniziative di responsabilità sociale pesano moltissimo». Quanto? Secondo Mario Molteni, docente di Economia aziendale all?università Cattolica, «è difficile stabilirlo esattamente, perché non sempre c?è un nesso univoco nel caused related market. Per le linee specifiche immesse sul mercato, le vendite sono sempre aumentate. Per le iniziative più complesse, come le informazioni sull?impatto nutrizionale dei prodotti o il monitoraggio delle varie tappe della filiera, quantificare il ritorno è più complesso». La partita si vince così. Non tanto con singole mosse, ma con un orientamento generale alla responsabilità sociale. Cosa consigliano i guru? Di tutto, di più. Ma soprattutto l?attenzione all?ambiente, alla salute (leggi ogm free) e i servizi agli utenti. Il massimo, per Fabris, sarebbe trovare un ombrello all?uscita quando arriva un temporale improvviso.


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