Welfare

Solo lievito e niente impresa. Un’idea sbagliata di non profit

Il destino del terzo settore. Una risposta a Ilvo Diamanti

di Carlo Borzaga

C?è un modo diffuso di interpretare l?evoluzione recente e la situazione attuale di quell?insieme eterogeneo di organizzazioni che, un po? per pigrizia e un po? per mancanza di alternative condivise, continuiamo a chiamare ?terzo settore? (e spesso a confondere con il più limitato fenomeno del volontariato), di cui nei mesi scorsi si è fatto portatore, prima su Repubblica e poi alle giornate di Bertinoro e dalle colonne di Vita, anche Ilvo Diamanti, che non convince. Né nell?analisi, né nelle soluzioni, né nelle terapie proposte. Non convince l?analisi perché persiste nel limitare l?azione di queste organizzazioni entro un paradigma, quello della modernità, ormai in crisi e perché non è abbastanza attento alla reale evoluzione del settore. Non convincono di conseguenza neppure i consigli che ne derivano. Anzi essi rischiano, se ascoltati, di limitare, e di molto, la portata innovativa che queste organizzazioni hanno dimostrato di avere e sono ancora in grado di esprimere. Destinati alla marginalità? Anche se non sempre in modo esplicito, Diamanti ripropone una visione del terzo settore (genericamente inteso) come soggetto il cui principale, o forse addirittura esclusivo, ruolo è quello di influenzare la politica attraverso un sovrappiù di partecipazione, di «modificare i meccanismi di definizione della democrazia e della partecipazione». Con un impatto necessariamente molto marginale sull?economia, dovuto soltanto a modesti cambiamenti degli stadi di vita, o ad azioni di protesta e boicottaggio verso particolari prodotti o imprese. Un terzo settore quindi che può, forse, contribuire a innovare dal basso istituzioni pubbliche in crisi, partiti ormai senza voce, imprese comunque dedite solo a fare profitti. Un terzo settore che di conseguenza non deve organizzarsi troppo, che deve restare informale e disorganizzato, che non deve tradurre i valori che lo ispirano in modelli di produzione, allocazione e distribuzione della ricchezza diversi da quelli finora sperimentati, ma largamente insoddisfacenti. Compito quest?ultimo che deve invece restare appannaggio esclusivo delle istituzioni pubbliche e delle imprese private a scopo di lucro. Con le quali il terzo settore non deve neppure avere rapporti troppo sistematici, non deve fare accordi, per evitare di diventarne ?ostaggio?. Questa interpretazione del terzo settore è, a mio modo di vedere, non solo molto tradizionale, ma ormai superata. Essa infatti, continuando a vedere il terzo settore come un insieme di movimenti di promozione, tutela e partecipazione, non ne coglie tutte le reali dimensioni e soprattutto non coglie quelle che sono andate emergendo in questi ultimi venticinque-trent?anni. In particolare non ne coglie la dimensione produttiva, intesa come capacità di proporre nuove modalità, del tutto razionali anche se diverse da quelle finora conosciute e riconosciute, di fare impresa per garantire alla collettività, in alternativa o in collaborazione con istituzioni pubbliche e imprese for profit, i beni e i servizi di cui essa ha bisogno e che migliorano la qualità della vita dei cittadini. Forme di impresa che riescono a recuperare le risorse necessarie a sostenere la propria attività attraverso canali diversi da quelli delle istituzioni tradizionali, pubbliche e private (tra cui le donazioni, il volontariato, ma anche più elevati livelli di efficienza nella gestione delle risorse umane e finanziarie). E che lo fanno non in modo casuale, ma attraverso mix di incentivi peculiari del tutto coerenti con gli obiettivi organizzativi. In modo quindi del tutto e forse più razionale di quelli utilizzati dalle istituzioni tradizionali. Non ambiguo ma complesso Se visto secondo quest?ottica, più economica che socio-politologica, il terzo settore non appare più, come sostiene Diamanti, ?ambiguo? ma, molto più semplicemente, ?complesso?, articolato in più componenti; alcune, come nel passato, più orientate alla protesta, altre alla produzione e alla collaborazione, sia con lo Stato sia con il mercato. E dove la collaborazione non va demonizzata, perché in questi anni ha dimostrato di essere un modo per ri-orientare verso i servizi sociali e verso alcune aree di bisogno flussi finanziari pubblici che altrimenti avrebbero preso altre strade, socialmente meno apprezzabili. E cambiano anche le indicazioni di strategia. Lungi dal restare informali e ?involontarie?, le organizzazioni di terzo settore, e soprattutto quelle più orientate alla produzione di servizi (oggi sociali, domani di interesse collettivo), hanno bisogno di consolidare la propria immagine, di strutturarsi in modo riconoscibile e coerente, di darsi modalità di governo e di rendicontazione chiare e convincenti. Non voglio sostenere che il terzo settore sia privo di ambiguità. Anzi. Ma esse sono più il frutto di una complessità ancora non compresa né riconosciuta, neppure dentro lo stesso terzo settore, che da un?eccessiva di voglia di protagonismo.


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