Formazione
Il vero disastro dell’aviaria? Far dimenticare le mattanze dei poveri
Linformazione e la pandemia. Lettera aperta ai giornali
Sull?influenza aviaria è stato scritto tutto e il contrario di tutto. Una volta tanto, però, lasciamo da parte ogni forma d?allarmismo e percezione emotiva. Per carità, la prudenza è d?obbligo, considerando che in questi giorni alcune vite umane sono state stroncate in seguito al contagio causato da volatili infetti.
Ma proprio perché nessuno intende passare per un profeta di sventure, tentiamo di umanizzare l?areopago della comunicazione, nella consapevolezza che le nostre valutazioni sono spesso condizionate dalla logica fuorviante dei ?due pesi, due misure?. Sta di fatto che mentre le televisioni di mezzo mondo continuano a mandare in onda servizi dalla Turchia, e ora anche da Gerusalemme, sull?aviaria, gli investimenti per debellare le malattie principalmente parassitarie dei paesi poveri sono a dir poco irrisori.
Una vera mattanza
Un esempio emblematico è quello della ricerca nel settore
delle malattie principalmente parassitarie che affliggono i paesi poveri, che non è mai stata adeguata ai reali bisogni, sia nella terapia che nella profilassi. A livello mondiale si stima che vi siano milioni di decessi per queste patologie, un?autentica mattanza che non fa notizia. Purtroppo le popolazioni del Sud del mondo non rappresentano un target nell?ambito del marketing farmaceutico in quanto si tratta di gente con scarsa o inesistente disponibilità finanziaria. Ecco che allora se da un lato queste pandemie costituiscono un limite concreto allo sviluppo, è altrettanto vero che senza un reale progresso economico e sociale la lotta per debellarle è persa in partena. In alcuni paesi dell?Africa australe, ad esempio, l?infezione da Hiv colpisce anche il 25-30% della popolazione giovaneadulta e in età lavorativa. Di questo passo la sindrome da immunodeficienza acquisita potrebbe rallentare per decenni lo sviluppo socio-economico d?interi popoli. E lo stesso vale per l?infezione malarica, con l?elevatissimo tributo in termini di mortalità in età infantile nei Paesi dove il paludismo è endemico.
E sì perché, nonostante si continui a spendere una barca di soldi nell?acquisto di armamenti per fare guerre a destra e a manca, sono quasi 500 milioni le persone che contraggono ogni anno la malaria, molte di più che negli anni 70. E mentre la ricerca su un possibile vaccino sembra essere ancora in alto mare, soprattutto per mancanza di finanziamenti, si stima che vi siano almeno due milioni di persone che muoiono ogni anno di malaria, di cui il 90% bambini africani sotto i cinque anni.
Recentemente sono stati prodotti nuovi farmaci, abbastanza efficaci a base di artemisia: la cura dura solo tre giorni e costa due dollari per un adulto e 60 centesimi per un bambino. Purtroppo, come ha denunciato ripetutamente Medici senza frontiere, questi farmaci innovativi sono quantitativamente insufficienti e soprattutto scarseggiano i denari per consentire ai governi dei paesi colpiti dalla malaria, tra i più poveri al mondo, di erogare trattamenti gratuiti. S?impone pertanto una riflessione sul rapporto tra ?etica della salute? ed ?economia?, anche perché queste due discipline non sembrano essere buone alleate.
In effetti il dualismo, apparente o effettivo, non è facilmente risolvibile in quanto intervengono numerosi giudizi di valore, che non sempre sono convergenti.
L?economia, in sostanza, dovrebbe mettere a disposizione degli strumenti per affrontare in maniera sistematica e consapevole le scelte, ma le decisioni che sottendono l?utilizzazione delle risorse richiedono un giudizio etico che riguarda la società considerata nel suo insieme ad ogni latitudine.
Come disse GP II
La cura della salute non può essere valutata secondo logiche liberiste, come se si trattasse di una semplice attività produttiva, dal momento che l?organizzazione sanitaria deve operare con l?intento di preservare il sacrosanto valore della vita umana. In altre parole, la responsabilità di curare le pandemie che affliggono l?Africa non può ricadere sulle famiglie dei pazienti, che già devono lottare contro la miseria, ma riguarda, nel suo complesso, la comunità internazionale.
Dal giuramento di Ippocrate, ai pronunciamenti del magistero ecclesiastico, alle raccomandazioni dell?Organizzazione mondiale della sanità emerge a chiare lettere la necessità di un impiego, da parte dei ?decision maker? in difesa della salute, un valore che non può essere banalmente mercificato come vorrebbero certi sacerdoti del dio denaro. D?altronde, è una questione di civiltà cogliere la linea di demarcazione valoriale tra un prodotto farmaceutico capace di salvare vite umane e qualsiasi altra forma di merce o bene di consumo. Come ebbe a dire lo scorso anno Giovanni Paolo II, in un suo messaggio al presidente della Pontificia accademia per la vita, «la rilevanza etica del bene della salute è tale da motivare un forte impegno di tutela e di cura da parte della stessa società. È un dovere di solidarietà che non esclude nessuno».
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