Volontariato

Qui,tra i disperati dell’inferno Kosovo

"Dopo la strage serba di Racak,interi villaggi vivono nel terrore mentre migliaia di profughi cercano invano aiuto. Non c’è via di scampo".

di Paolo Giovannelli

Milosevic e il mondo ancora ai ferri corti, mentre il compito delle organizzazioni umanitarie e delle associazioni di volontariato pacifiste attive in Kosovo si fa sempre più arduo. ?Vita? raggiunge telefonicamente Lisa Clark, volontaria e componente del direttivo dell?Associazione Beati i costruttori di pace mentre, in treno, sta rientrando da quel nuovo martoriato angolo dei Balcani .«Sono partita da Pristina ieri pomeriggio (è il 21 gennaio 1999, ndr)», dice, «e credo, purtroppo, che in questo periodo molti stranieri mi seguiranno. Ci sono molte difficoltà a girare per il Paese. Siamo stati fermati dalla polizia a pochi chilometri da Decani, assieme a dei giornalisti che percorrevano la stessa strada: anche fare informazione corretta è difficilissimo. I serbi incutono davvero paura e provocano ripetutamente la comunità internazionale che, dal suo canto, non riesce ancora ad esprimersi univocamente». Sfruttando proprio questa indecisione, soprattutto europea, il presidente della Jugoslavia, Slobodan Milosevic, soprannominato proprio dagli occidentali «la volpe dei Balcani» per la sua capacità di catalizzare consenso in patria e contemporaneamente di spingere ormai da otto anni il suo popolo alla guerra, continua a spadroneggiare. «A noi piaceva moltissimo», spiega Clark, «il piano dell?Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) di far agire in Kosovo degli osservatori disarmati. Dallo scorso ottobre, circa 110mila persone avevano fatto ritorno alle loro abitazioni (il conflitto in Kosovo ha costretto finora 300mila persone ad abbandonare le loro case, di cui 180mila si trovano ancora all?interno del Kosovo stesso, ndr). Ma, oggi, è davvero molto difficile. Poi abbiamo anche notato che gli stessi verificatori dell?Osce sono divisi rispetto alla loro missione e che difficilmente possono risultare imparziali: l?impressione è che rispondano più alla linea politica sui Balcani dei rispettivi governi piuttosto che a una missione comune. Inoltre dovevano essere ben 2mila, ma in azione non se ne sono visti più di 700». I Beati i costruttori di pace, associazione promotrice del cartello ?I care Kosovo?, sono presenti nella regione balcanica da alcuni mesi, ma ora l?emergenza è di permettere alle persone fuggite nei boschi di tornare nelle loro case. Il recente massacro di Racak (il villaggio dove sono stati trovati i corpi di 45 civili albanesi del Kosovo uccisi secondo gli osservatori dell?Osce dalle forze di sicurezza federali di Belgrado) ne ha creati sicuramente altri 3mila, anche se alcune autorevoli fonti sostengono che il numero dei nuovi sfollati sia ben maggiore. L?Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) stima che almeno 5.300 persone siano state costrette alla fuga a causa delle operazioni militari condotte dalla polizia e dall?esercito serbo a Racak e nei villaggi circostanti. Fra questi civili, tenuti in scacco sulle montagne dalle milizie di Milosevic, sono morti nei giorni scorsi anche tre bambini. «Sono addolorata», dichiara l?Alto commissario delle Nazioni unite, Sadako Ogata, «nel vedere che anche donne e bambini siano di nuovo costretti ad abbandonare le loro case nel freddissimo inverno balcanico. Tra gli sfollati si avverte una grande paura. Una situazione politica deve essere trovata immediat amente per porre termine al conflitto in Kosovo». Soluzione politica e non bombe, dunque. Anche i Beati i costruttori di pace condividono tale linea, temendo che Milosevic possa trarre demagogicamente vantaggio dall? attacco militare . Ma intanto il tempo passa, i civili del Kosovo sono sempre più in pericolo. «Proprio dopo l?eccidio di Racak», è ancora Lisa Clark dei Beati icostruttori di pace a parlare, «ero presente alla dichiarazione fatta nel villaggio di Stimlje alla stampa dal vice capo della missione Osce che denunciava il comportamento delle autorità jugoslave. I serbi, infatti, subito dopo l?eccidio di Racak, si sono fatti largo sparando, per accompagnare i loro medici legali sul luogo del massacro». Bosnia, la centrale riaccende la vita Una bella carica di energia ci voleva proprio a Sarajevo. Soprattutto adesso che la Bosnia deve trovare la forza di rinascere dalle ceneri della guerra. Adesso che il ?il Paese delle tre R?, come l?ha definita don Elvio Damoli, deve occuparsi del ritorno degli sfollati, della sua ricostruzione e, soprattutto, di riconciliare le varie parti della popolazione. Progetti importanti che la Caritas ha deciso di sostenere costruendo una grande centrale termica a Zepece. Una delle tante iniziative di ricostruzione per cui la Caritas ha investito circa 1 miliardo e mezzo e impegnato l?impresa produttrice a devolvere parte degli utili dei primi dieci anni all?Arcidiocesi di Sarajevo che li impiegherà in opere di solidarietà. Zepece, un paese di 22 mila abitanti nella diocesi di Sarajevo, da oggi ha dunque una speranza in più. La centrale, inaugurata dal presidente della Caritas e dal cardinale Vinko Pulic arcivescovo di Sarajevo, permetterà infatti di riaprire una grande azienda per la lavorazione del legno che prima della guerra dava lavoro a 600 persone. Grazie alla nuova energia, inoltre, verranno riattivate le camere di essicazione di una fabbrica di mobili in cui lavorano 80 persone, e, soprattutto, riscaldate scuole, edifici comunali e ospedali.


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