Politica

Il caso Welby e le scorciatoie del pensiero forte

È difficile non immedesimarsi nelle ragioni di Piergiorgio. Eppure non bisogna lasciarsi travolgere dall’emotività. La questione che pone è troppo grande.

di Franco Bomprezzi

L?irriducibile mistero della vita e della morte continua ad affascinare, inquietando, le coscienze attraverso il racconto quotidiano dello strazio di Piergiorgio Welby. È difficile non immedesimarsi nella sua battaglia per la liberazione da una sofferenza senza futuro, è quasi impossibile non riconoscere a lui coerenza e chiarezza di intenti, in una richiesta semplice e umana, che non avrebbe bisogno di spiegazioni dettagliate e di interpretazioni filologiche. E invece in questi giorni la tragica imponenza mediatica di Welby continua a trascinare un dibattito asfissiante e privo di aderenza alla realtà della vita. Eutanasia no, testamento biologico sì, accanimento terapeutico no. Sì e no, dichiarati con enfasi e spesso senza ragionare a fondo sul significato vero delle parole e delle singole scelte. Francamente avverto in tutto questo parlare un vuoto morale, una presa di distanza sostanziale, perché la morte ci trova sempre smarriti, impreparati, non riusciamo a collocarla nella sequenza giusta della vita. Intanto mentre i riflettori continuano a essere puntati su Welby, difficile immaginare fino a quando, migliaia di altre persone vivono quotidianamente il calvario di un?esistenza senza requisiti minimi di dignità e di qualità, e la sofferenza fisica è spesso poca cosa rispetto al disagio morale e affettivo. La società dei sentimenti a comando riesce a commuoversi per Welby, forse, ma distoglie lo sguardo dagli altri ?senza voce? il cui tempo è scandito dal silenzio. L?umana pietà dovrebbe ogni tanto intervenire a porre le questioni in una giusta prospettiva, e ognuno di noi riflettere davvero su quanto questa vicenda ci riguardi direttamente, rinunciando alle scorciatoie del pensiero forte.


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