Mondo

Iraq: dopo il rapporto Baker che fare. Interviene Andreatta

Filippo Andreatta a Vita: Oggi il problema più grave è pacificare i rapporti tra sciiti e sunniti. Il che vuol dire che la strategia deve essere modificata

di Paolo Manzo

«Sono due gli ordini di problemi creati dall’intervento statunitense in Iraq». Filippo Andreatta, docente di Scienza politica e relazioni internazionali all’università degli Studi di Bologna, è uno dei massimi esperti di Medio Oriente. Vita lo ha interpellato per fare il punto sulla questione irachena rimessa in gioco anche grazie al Rapporto Baker, già segretario di Stato di Bush padre. Vita: Quali sono i due ordini di problemi? Filippo Andreatta: Uno è generale, e riguarda tutti gli interventi per modificare i regimi e sostituire la politica interna di un paese. Un’azione, questa, particolarmente difficile se si vuole esportare la democrazia in quanto c’è bisogno di alcune precondizioni sul territorio che, nel caso iracheno, non c’erano in partenza, dato che a Baghdad c’era una dittatura. Tutti gli interventi che nella storia sono riusciti a esportare la democrazia con successo si sono verificati in paesi dove c’erano stati processi di liberalizzazione e democratizzazione più antichi, come ad esempio in Italia e Germania dopo il ’45 che, prima di fascismo e nazismo, avevano avuto la democrazia negli anni Venti. Vita: nello specifico, invece, quali le discriminanti del fallimento iracheno? Andreatta: Gli errori di cui è ormai nota la lista. Primo: avere avuto un cattivo coordinamento civile-militare. Secondo: probabilmente avere avuto troppe poche forze militari sul terreno. Terzo: il non avere coinvolto a sufficienza dall’inizio gli iracheni e, in particolare, la comunità sunnita che è stata punita inizialmente dalla de-baathificazione. Quarto: una certa arroganza che ha fatto sì che si siano sottovalutati i rischi. Un’arroganza derivante sia da questioni di politica interna statunitense, sia da questioni ideologiche che vedevano questo intervento come la chiave di volta per un nuovo tipo di politica estera Usa. Quinto: si è corso troppo tardi al riparo. Vita: Quindi l’intervento in Iraq è fallito essenzialmente a causa degli errori fatti dagli Usa? Andreatta: Diciamo che, alla normale difficoltà di un intervento di questo genere, c’è stata la particolare difficoltà della lotta tra fazioni ed etnie diverse. Soprattutto tra le due grandi confessioni, gli sciiti e i sunniti. Vita: Perché è particolarmente difficile esportare la democrazia e avere una transizione democratica, in paesi dove esistono, appunto, maggioranze e minoranze etniche? Andreatta: Perché l’istinto è quello che la maggioranza utilizzi gli strumenti a propria disposizione per sottomettere la minoranza che, ovviamente, reagisce. Vita: Che fare adesso? Andreatta: Oggi il problema più grave è pacificare i rapporti tra sciiti e sunniti. Il che vuol dire che la strategia deve essere modificata: non è più un problema tra il resto del mondo e l’Iraq, bensì un problema tra iracheni. La presenza esterna può aiutare a trovare una soluzione ma non può imporla. Vita: Via tutte le truppe, dunque? Andreatta: Oggi la presenza militare occidentale può essere necessaria ad alcune soluzioni, nel senso che se non ci sono soluzioni negoziali immediate è evidente che il tempo può essere comprato solo da un minimo di sicurezza a cui può provvedere solo un contingente esterno. Diciamo che la presenza di truppe può essere necessaria ma non sufficiente e che, di certo, a Baghdad c’è un deficit di politica in questo momento. Vita: Risultato disastroso anche per l’umanitario… Andreatta: Certo. Come tutte le guerre civili comporta un enorme dispendio di vittime non militari e il clima di violenza diffusa rende estremamente difficile l’intervento delle organizzazioni non governative. Anche se c’è stato un leggero miglioramento… Vita: In che senso, scusi? Andreatta: Perché il passaggio verso la guerra civile ha fatto ridurre molto gli attacchi contro gli stranieri, operatori umanitari compresi. Ciononostante la violenza diffusa sul territorio rende difficile operare dall’esterno attraverso l’azione umanitaria. Vita: Torniamo a una valutazione complessiva della situazione irachena. Contando anche il numero complessivo delle vittime, possiamo dire che l’intervento sia stato un fallimento totale? Andreatta: Contare i morti come fanno alcuni è un gioco troppo cinico e duro per essere fatto correttamente. Sicuramente la rimozione di Saddam era un valore in sé. Purtroppo, restando ai civili, oggi dall’Iraq arrivano dati preoccupanti sulla distribuzione dell’acqua, dell’energia e di sostanzialmente tutte le reti… La situazione, insomma, è assai grave perché fa fatica a ripartire l’economia del paese. Vita: Soluzioni? Andreatta: Una sarebbe quella di partecipare alla guerra civile parteggiando per una delle fazioni. A livello astratto è una soluzione che, tuttavia, sarebbe improponibile e ingiusta a livello politico. Vita: Improponibile ma, se pensiamo alla ex-Jugoslavia, praticabile e praticata… Andreatta: Certo, le dell’Onu nella ex Jugoslavia si sono risolte solo quando, a un certo punto, le truppe internazionali hanno preso una parte, in particolare quella dei musulmani in Bosnia e dei kosovari. Qui, tuttavia, l’opzione jugoslava non c’è perché gli Usa e l’Onu non sono in condizione di scegliere tra sciiti e sunniti e , come in molte guerre civili. non ci sono innocenti. Vita: E quindi? Andreatta: Quindi l’unica cosa che si può fare è cercare di aiutare il governo legittimo per un periodo limitato. Pertanto, va preventivamente fissata a breve una data, che può essere tenuta segreta, entro la quale portare la massima stabilità anche aumentando le truppe sino a quel giorno. In sintesi: dare agli iracheni la possibilità di trovare una soluzione politica tra loro entro quella data ma dopo, a mio avviso, la presenza delle truppe diventerebbe inutile se non controproducente. Insomma, alla fine bisogna far capire agli iracheni che devono trovare una soluzione loro e, contemporaneamente, bisogna ripensare la strategia del Medio Oriente.


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