Imprenditore, politico, amministratore: il primo presidente lombardo oggi si occupa di responsabilità nell'innovazione con la Fondazione Giannino Bassetti. Uno splendido 95enne che ragiona di autonomia, modelli sociali, responsabilità di impresa. E della Divinità. Alla cui idea, dice, converrebbe subordinare l'Ai. Lo abbiamo incontrato
Piero Bassetti (Milano, 1928) è stato ed è molte cose. Ha vissuto un’intensa stagione imprenditoriale nella azienda di famiglia – marchio notissimo di biancheria nell’Italia del Boom e poi di Carosello – un’altra nella politica (fu il primo presidente della Lombardia), dei servizi all’impresa (rivoluzionò Unioncamere).
Da 25 anni, con la Fondazione Giannino Bassetti, ha messo a tema la responsabilità nell’innovazione e, con l’Osservatorio Globus et locus, la geolocalizzazione e il localismo.
Un magnifico 95enne: garbato, acuto, colto. Ci riceve in un ufficio pieno di libri, rammentando gli inizi di Vita, «un apparato editoriale di prim’ordine, ricordo» e ragionando della difficoltà del mondo dell’editoria. «Secondo me», attacca appena seduti, «la crisi non è tanto editoriale quanto comunicativa, nel senso che noi siamo. A quattro secoli di distanza, di fronte a una radicale rivoluzione del modo in comunicarsi, cioè, per esempio, stiamo cancellando l’alfabeto…». Con lui il segretario generale della fondazione, Francesco Samoré.
Cancellare l’alfabeto in che senso?
Nel senso che una volta ci muovevamo con 21 caratteri, oggi ci rapportiamo ai 10mila digit. Ho l’impressione che il vero problema sia proprio il cambiamento del modo con cui l’uomo civilizzato trasmette il suo pensiero. Siamo alla afasia, intesa in senso pubblico, cioè io e lei ci parliamo, ci possiamo parlare, come ci siamo sempre parlati, forse meglio perché, al limite, se ci manca qualcosa, ce lo dice Google. La società però non si parla più come parlava una volta.
Mi ha molto colpito il fatto che lei, 30 anni fa, avesse scelto questo tema, che è attualissimo oggi. All’epoca, al più, si parlava dell’automazione. Ricordo quel viaggio che fece Giorgio Bocca per Repubblica, alla fine degli anni 80: andava alla Comau di Torino, andava in giro per altre fabbriche modernissime, e ci raccontava l’automazione come fosse il futuro, e lo era per l’epoca. Il fatto che lei, per tempo, si fosse posto il problema che innovare implicava una responsabilità, a me sembrato una visione straordinariamente moderna, per gli anni 90.
Scusi se le do una risposta che può apparire presuntuosa ma è questione di intelligenza, nel senso latino di intus legere, leggere dentro. Da quando sono al mondo, mi sono accorto che un po’ di intelligenza ti consente di leggere dentro. Ecco, io la riflessione l’ho fatta e l’ho resa pubblica tante volte, facendo l’imprenditore e vedendo come, per scelte motivate da una logica che è quella capitalistica del profitto, si modificava. Ricordo il dialogo con mio zio: «Abbiamo cambiato il letto e non abbiamo chiesto il permesso a nessuno». E il suo commento era: «Ma abbiamo fatto un po’ di soldi, no?». È da lì che io ho detto: va bene cambiare il letto – la responsabilità non fa disonore – ma attenti che, con lo stesso metodo, cioè senza chiedere a nessuno il permesso, ci si può prendere delle responsabilità molto grosse, come per la bomba atomica.
Perché allora, trent’anni fa, sembrava quasi che l’interesse fosse altrove, rispetto all’innovazione e alla sua responsabilità. Forse perché non c’era Internet, banalmente, a farlo percepire ai più?
Tenga presente che io ho avuto una gioventù privilegiata, dal punto di vista di vedere il mondo: ho vinto una borsa e studiato negli Stati Uniti e poi con la tesi, ne ho vinta un’altra, di Banca d’Italia, e mi sono specializzato in Gran Bretagna. Certamente poi, appartenendo a una famiglia agiata, non avevo la visione di cose che una persona forse meno fortunata, poteva avere meno presenti. Secondo me, però, quelle cose si vedevano già chiaramente.
Lei dice, presidente, che l’impatto dell’innovazione era già intelleggibile?
Perlomeno nell’Italia del Nord. E qui che, oggi, c’è uno dei drammatici problemi del Paese, e cioè che siamo due Italie.
Spieghiamolo bene…
La sensazione e che molte relazioni e tra esse le più calde, cioè le più importanti, fossero da molti anni – ben oltre i 30 anni fa che lei ha richiamato all’inizio – fuori dal circuito delle relazioni sociopolitiche tradizionali, perché veniva meno la risposta religiosa, dell’ortodossia religiosa, che regolava tutte le relazioni tra padri, figli, fratelli, sorelle, che regolava il matrimonio. La politica era incapace, era sorda a qualunque problematica del genere, oppure la rendeva agitato, pensi al divorzio e a cose che certamente erano problemi sociali, ma non erano i soli.
Lei ha cominciato presto a interessarsi di tematiche sociali…
Ho avuto la fortuna di essere sollecitato, come imprenditore, a occuparmi a fondo del problema sociale della cittadina di Rescaldina (Mi), perché una delle più belle indagini di Alessandro Pizzorno era centrata sull’esperienza industriale della Bassetti, che là aveva gli stabilimenti. Significava comunità e razionalizzazione, ed è stato il primo lavoro sociologico italiano sulle grandi aziende italiane. È tuttora studiato in molte università del mondo, perché era un’indagine, un’inchiesta sociale, su un’impresa e sul suo territorio.
Non è stato il solo sociologo a occuparsi della Bassetti, nei mesi scorsi, Francesco Alberoni, sul Corriere della Sera, scriveva: «La mia carriera è scattata per l’intuizione e il rischio che si prese Piero Bassetti: farmi indagare se per caso le lenzuola colori, le lenzuola, con gli angoli, fossero o non fossero adatte al mercato».
La vita della Bassetti era ovviamente legata al corredo, al concetto di corredo: se ci pensa, era un set di relazioni antico, vecchio, radicato, no? Era un punto di relazioni sociali, cioè la sposa col fidanzato, la relazione fra le famiglie.
Uno snodo importante, direi.
Però noi percepivamo che, per esempio, negli ambiti urbani cominciava a scricchiolare, cioè ci si sposava anche senza averlo, il corredo. Volevamo capire come evolveva una problematica tipicamente di relazione sociale. Alberoni lavorò sul Piacentino, perché aveva capito che questo arretramento, questa perdita di tenuta delle relazioni, era funzione della vicinanza, o della lontananza, dai centri abitati. Scelse Piacenza perché era una città avanzata, culturalmente avanzata, e perché i piacentini erano piuttosto raffinati. Il retroterra era molto diverso: a 20 chilometri a Piacenza, anche in relazione all’Appennino, la vita era un’altra cosa.
E come lavoro?
Con un’analisi accurata fatta sull’orografia di Piacenza. Avevamo trasformato le potenzialità di mercato – marketing – in relazione alle mutate coordinate e, in un certo senso, funzionava. L’organizzazione, in possesso di quell’informazione, era più precisa.
Perché i viaggiatori della Bassetti, come si diceva allora, andavano sicuramente a Bobbio (centro sulle Colline piacentine, ndr)…
Sì, ma invece di andarci una volta al mese, il viaggiatore ci si recava ogni due mesi, mentre in via Spiga, a Milano, passava quasi tutti i giorni. Le stavo dicendo questo per rispondere a una domanda che, per la verità, nessuno ha mai fatto, cioè quella su come ho fatto a accorgermi che la che la innovazione creava la responsabilità. Anche perché, devo dire, come Fondazione abbiamo sudato trent’anni perché la gente convenisse sul fatto che sì, era vero, l’innovazione doveva contenere una responsabilità. I preti, per esempio, non lo capivano
Torno a Rescaldina, presidente. Lì c’era una sorta di Villaggio Crespi.
Mio padre era stato sindaco, mio fratello era sindaco, il palazzo comunale era stato costruito a spese di mio padre, per dire. Era un paese “impregnato” dalla Bassetti. Non essere operaio alla Bassetti era una rarità. E quella Bassetti era una specie di situazioni come quelle che gli Olivetti e i Marzotto hanno realizzato.
Da dove nasceva questa idea di un certo modo di fare impresa, occupandosi anche della comunità sui cui la produzione insisteva?
La mia era una famiglia profondamente cattolica di tradizione. Quindi il concetto di responsabilità politica era vissuto e unito col concetto di responsabilità morale. Non solo, mia madre era un’intellettuale: ho vissuto in un mondo di relativa raffinatezza di pensiero. A 10 anni mi davano da leggere Guerra e pace, non Topolino, per dire. C’era quest’idea che uno ricco deve essere responsabile perché è un privilegiato. Alla base dell’interesse per l’innovazione c’è l’intelligenza, cioè l’intus legere, che dicevamo prima, c’è il fatto che la persona intelligente vede i problemi e si pone il tema delle soluzioni, prima de cretino. Del resto, quando voi avete scelto come chiamare il giornale – mi ricordo di averne parlato allora con Riccardo Bonacina – avete scelto Vita, un nome che è un continuo rapporto con l’innovazione, no?
Vale a dire?
Cioè lei non sa cosa succeda stasera. Eppure affronta la serata, se è coraggioso. E sostanzialmente il vitalismo è molto legato alla innovatività. E allora, a questo punto, la responsabilità è molto legata alla connessione tra innovazione, rischio, valori, scelte. E secondo me chi vuole occuparsi oggi di società deve al massimo rendersi conto che quando la società muta.
Bassetti prende in mano una copia di Vita di maggio, dedicata ai giovani.
Leggo: «Gioventù bruciata, che voi dite grande inchiesta sulla sofferenza di una generazione». Provi a pensare a quanta innovazione c’è in questa frase? Quando mai sì è legato il tema della generazione al grado di sofferenza? La generazione era legata al grado di età, al grado di professionalità, ma non al fatto che si possa soffrire per essere giovani. È assolutamente innovativo come concetto: la generazione giovane era una privilegiata, non era una condanna a soffrire, no?
Grazie di questa lettura, presidente. In questi giorni, siamo tutti a fare i conti con questo spettro, o con questa grande leva a seconda dei punti di vista, dell’intelligenza artificiale. A proposito di intus legere, come lei richiamava, c’è quasi la sensazione che non l’abbiamo vista arrivare.
Allo stato attuale, sono preoccupatissimo della questione dell’intelligenza artificiale perché, a differenza di molte altre innovazioni, vedo il sistema di potere – categoria concettuale, a cui ho sempre dato importanza e per la quale in inglese esistono due forme: I can e I may – il sistema di potere che l’intelligenza artificiale sta introducendo come il fatto che non sarà più condizionata dal potere stesso. E a occuparsene per primi, saranno quelli che il potere lo cercano. Il problema che mi pare non si sia compreso è che l’intelligenza artificiale non si interrompe spegnendo i robot. Non basta staccare la spina. Abbiamo visto l’altro giorno che, per esempio, l’Artifical intelligence – Ai può trovarti i farmaci adatti o eliminarti una malattia ma è il grado di informazione raggiunto, da macchine diverse da quelle che il cervello controlla, che rende l’intelligenza artificiale pericolosa. C’è una sola risposta che garantisce: Dio.
Sono ottimista perché sono disponibile ad assumere che la vita possa essere di altra persona o di altre persone e non, come pretendiamo noi, solo nostra. O si pensa di affidarsi a Dio, come secondo me accadrà, o si pensa di affidarsi al Superuomo.
Piero Bassetti
In che senso?
Nel senso di dare l’intelligenza artificiale in mano all’Oltre e l’Oltre è in mano a Dio, diciamo. Se è in mano al diavolo, cioè se non è in mano a nessuno, saranno guai. D’altra parte in tutte le religioni del mondo l’Oltre è affidato a qualcosa o a qualcuno. Non c’è nessuno, tranne la laicità occidentale, nel suo estremismo che faccia eccezione. Ecco ora che questo Oltre sia dominato da una intelligenza è un rischio pazzesco, perché vuol dire che, per la prima volta, un pezzo di potere, e sarà sempre maggiore, non è più il controllo dell’uomo. Sarà la fine del dell’antropocene, del fatto che l’uomo ha gestito la Terra perché era intelligente. Se qualcuno è più intelligente di lui, quello prenderà il potere sulla Terra. Per questo l’intelligenza artificiale è, secondo me, un rischio epocale. Qui le risposte appartengono più al regno della magia, o della religione, che non al regno della razionalità. E questo proprio perché l’intelligenza artificiale nega la capacità della razionalità di sapere.
Interessantissimo. Ma lei è ottimista o pessimista, alla fine?
Sono ottimista. A parte il fatto che, avendo 95 anni… saranno cavoli vostri, mamma mia (ride). Sono ottimista perché sono disponibile ad assumere che la vita possa essere di altra persona o di altre persone e non, come pretendiamo noi, solo nostra. O si pensa di affidarsi a Dio, come secondo me accadrà, o si pensa di affidarsi al Superuomo. Sulla distribuzione del potere però sono assolutamente pessimista: l’uguaglianza sarà la prima vittima dell’intelligenza artificiale.
La sua vita è stata per tanta parte dedicata alla politica. In questo campo l’innovazione è sempre stata concepita come la via a questo grande sogno della democrazia diretta. L’esperienza mutuata dai social, mi riferisco anche al caso di Cambridge Analytica, ci parlano invece di consenso distorto, fake news e altro. Che ne pensa?
Sono convinto che l’essenza del potere sia antiugualitaria. Perché cosa vuol dire potere, se io posso nove volte su 10 e un altro no? Perché, se io posso prendere sberle lei, non è che necessariamente lei possa prendere a sberle me: ci giocano i privilegi della differenza – ora nel suo caso non vorrei provarci (ride). Il sogno dell’eguaglianza è intrinsecamente contraddittorio al sogno del potere collettivo. Lo disse Michel Foucault, non lo dico certo io. Il potere è ineguale, sennò non è potere. Quindi se andiamo verso la perdita del controllo dell’intelligenza, che è la condizione del sapere, abbiamo, abbiamo perso il controllo dell’uguaglianza in modo assoluto. Perché già oggi cos’è l’antidoto all’uguaglianza? È l’intelligenza? Infatti io sostengo che, da quel lato lì, Aldous Huxley fosse il più avanti.
Il Brave New World? Il Mondo nuovo?
L’influencing, il soma (la droga immessa nell’aria come aerosol, ndr), l’alfa-beta-gamma, che poi generavano una stratificazione sociale. Nel mondo dei social, nel mondo dell’intelligenza artificiale, sembra ci sia più Huxley che non George Orwell. Molto più pericoloso il primo del secondo…
In generale, come vede questa politica cui lei ha dato tanto?
La vedo ridotta malissimo. Sono estremamente pessimista, anche perché vedo come non posto il problema vero: quello della crisi della statualità, non dello Stato soltanto, ma della statualità, della norma. Della differenza di conoscenza. Abbiamo creato le condizioni per la ingovernabilità della società. Quindi, per la crescente difficoltà della politica, ora noi abbiamo una società difficilissima da “incantare”, difficilissima da “valorializzare”: perché non ci sono più i Dieci comandamenti, non c’è più rispetto della legge, non c’è quindi la politica. Invece la politica continua a considerare che il problema sia lo spartire una torta che non c’è più: cioè fare le parti, i partiti. Ma la “parte” per fare cosa? Cioè in questo momento, per esempio, prendiamo il Pnnr.
Prendiamolo…
Voglio dire in questo momento io ho cercherei tipi del Terzo polo…
Matteo Renzi o Carlo Calenda?
Cercherei gente che, nel bene o nel male, sapeva il fatto suo, alla Giuliano Amato o alla Giorgio Ruffolo. O alla Antonio Scelba.
Finalmente è arrivato un dc.
I democristiani hanno governato un Paese che credeva in Dio, oggi non è più così: difatti, secondo me, la Chiesa è in grossissima difficoltà. Non c’è più Dio, non perché non ci sia – infatti io mi trovo impegolato su questa storia dell’Oltre – ma perché oggi come si fa a dire che bisogna andare oltre lo specchio (i valore degli altri e delle cose, secondo la Alice di Lewis Carrol)? Ma chi è esperto di Oltre? E difatti, quando leggo sulla Civiltà Cattolica: «E se Dio giocasse a dadi?»…
Anche se ci hanno sempre insegnato che non gioca…
Appunto, perché ci hanno sempre insegnato che esiste lo spazio, che esiste il tempo. Basta leggere un fisico come Carlo Rovelli, che ha scritto un libro bellissimo Helgoland (Adelphi) per scoprire come in politica si possano far figure da scemo…
Elly Schlein mi tenta: è nata in America, ha studiato in Svizzera ed è lesbica, quindi evidentemente avrà fatto delle scelte e sciocca non deve essere.
Piero Bassetti
In che senso?
Eh, come si fa a governare sapendo che il tempo non esiste? Che lo spazio non esiste? E io sono convinto che abbiano ragione loro quando ti dicono: «Ma tu lo sai che se che se misuri l’ora qui e sul pavimento son diverse?!». Chi è che si muove in un mondo così? Quindi, da quel lato Elly Schlein, mi tenta.
Perché?
Perché è nata in America, ha studiato in Svizzera ed è lesbica, quindi evidentemente avrà fatto delle scelte e sciocca non deve essere. Lei non può più identificare “parti” che siano all’altezza della situazione. Ce ne fosse una che è all’altezza della situazione. Tenendo presente che abbiamo scelto di essere, e per ora rimaniamo, democratici.
Essendo stato lei il primo presidente lombardo, le chiedo cosa pensa di questa autonomia differenziata noi stiamo raccogliendo grandi preoccupazioni in giro per l’Italia.
Non voglio stupirla, ma ho trovato nell’articolo di Attilio Fontana sul Corriere, di fine maggio, (Autonomia differenziata, un’occasione per tutti) la mia posizione.
Mi stupisce, in effetti.
Beh, Ernesto Galli della Loggia dice: «Accentriamo, accentriamo, accentriamo»…
Lei non è d’accordo, capisco.
Io sono in grado di dire che la macchina di governo della Regione Lombardia è 20 volte più efficiente di quella dello Stato. E su questo punto, del resto, i fatti un po’ lo hanno già provato. Perché, tra l’altro, la società lombarda è 20 volte più privilegiata del resto del Paese. Inutile fare tutti uguali.
Che cosa vuol dire, presidente?
Carlo Cattaneo giustamente diceva che se vuoi vedere le differenze nelle persone, fagli indossare i vestiti della stessa misura e ti accorgi subito di quello piccolo, di quello troppo grande. Quindi aveva ragione D’Azeglio (sul fatto che c’era da fare gli italiani, ndr). È stato lì l’errore del nostro Risorgimento e questa strada dell’autonomia differenziata è l’unica maniera di recuperare. Anche perché poi la storia sta cancellando le ragioni dell’unità: oggi il mestiere del Sud Italia non è il mestiere del Nord Italia. Noi dobbiamo fare il sottopancia dell’Europa e loro devono gestire Mediterraneo. E d’altra parte, Veneto, Friuli, Lombardia, Piemonte, Emilia: son governate meglio del resto del Paese. Quindi se il tema è che vogliamo il centralismo, perché vogliamo tutti uguali, tutti fessi allo stesso modo, tutti spreconi allo stesso modo, beh allora son d’accordo anch’io… Se invece vogliamo per esempio, provare a gestire la società – e questo è un discorso serio che io faccio a una rivista come la vostra – è un altro conto. Per esempio, oggi, Milano sta facendo una politica nefanda: cioè cosa vuol dire proporre Parigi?
Il fatto che tutto sia alla portata del famoso quarto d’ora, intende?
Voglio dire che, oggi, Milano deve mettersi al servizio di Varese, di Como, di Torino, cioè cercare di dare una dimensione, una nuova concezione urbana, che non è più di 5 chilometro di raggio. L’Europa dice che l’unica città “alla cinese” in Europa è la Valle Padana. E allora c’è di mezzo l’innovazione, il fatto che appunto sul Freccia rossa si viaggi a 300 all’ora. E a 300 all’ora, le dimensioni tra Milano e Roma sono diverse da quelle di quando viaggiava 80 all’ora.
Bassetti, siamo un giornale che si occupa di sociale, di sostenibilità. Adesso la sostenibilità, soprattutto con i criteri Esg, è proprio nell’agenda europea. Ci sono una serie di scadenze anche per il mondo delle aziende, di criteri da adottare. Lei che idea si è fatto su questi temi in cui l’innovazione è molto addentro? In America, su gli Esg si giocheranno le prossime presidenziali.
In America rischiano una seconda guerra civile. Ho una figlia, New York, molto intelligente, e che è estremamente pessimista, lei dice che sta venendo fuori il rovescio della guerra civile. La guerra civile l’hanno fatta i bianchi ed erano di più. Adesso lo sono gli altri, che poi non sono soltanto i neri, e si preparano a restituire il job. Però…
Però?
Però io ho molta fiducia nel molto di inglese che c’è negli Stati Uniti, perché secondo me, in materia di politica, i bravi son due: gli svizzeri e gli inglesi. Tutta la storia dice questo: gli svizzeri tengono insieme da 800 anni, italiani, francesi e tedeschi. Per dire, cioè hanno questa strana saggezza che però li porta a poter avere il fucile in casa.
E ogni tre mesi a esercitarsi…
Comunque nell’innovazione, gli americani sono più avanti dei cinesi. Secondo me la scena li vedrà dominanti ancora, fino a quando i cinesi si confronteranno sull’innovazione.
Che idea s’è fatto della Cina?
So, con sicurezza, che la volontà di trovare l’accordo attuale col Papa, in Cina, arriva addirittura da Chou En-Lai, e quindi da molti anni addietro. I cinesi hanno capito che l’innovazione rimonta a Gesù, cioè all’idea del Cristo. Perché è l’idea del Cristo, che era un’idea greca, che sostiene la grande innovazione concettuale: cielo e terra in relazione organica, per affrontare la vita. Allora, se noi vogliamo diventare un Paese avanzato – han ragionato i cinesi – dobbiamo andare da chi ha il brevetto di Cristo. Ce l’ha la Chiesa? Trattiamo con la Chiesa. Perché trattando con la Chiesa noi discutiamo di innovazione, quella vera. E che i cinesi siano capaci di fare un ragionamento così è indubbio, hanno dietro meno la malattia razionalista, quello che crediamo essere la nostra forza ed è spesso il nostro handicap. Mi spiegava un gesuita che ha lungamente trattato, in segreto, l’accordo con la Cina, che la loro posizione era: l’accordo Chiesa va fatto per questa ragione, che è una ragione culturale, perché il nostro profeta questo non c’è l’ha. Per tornare all’America…
Torniamoci.
Continuo ad avere per la società americana molta stima, perché gli americani sono insieme coraggiosi e prudenti, sono gli americani, son gente seria.
L’Ai potrebbe essere la fine dell’antropocene. Non basterà staccare la spina della macchina. E se ci salvarà qualcosa, ci salverà la società con la sua complessità
Piero Bassetti
Cioè, lei dice, hanno gli antidoti per superare?
Hanno degli antidoti. E almeno finché esisterà questo vantaggio comparato sull’innovazione andrà tutto bene… Appena qualcosa potrà incrinarlo – e l’intelligenza artificiale può farlo – allora… Qui divento pessimista, nel senso che ho l’impressione che davvero finirà l’antropocene. Non basterà staccare la spina della macchina, come dicevo. E in ogni caso, se ci salverà qualcosa, ci salverà la società con la sua complessità. Non il potere. Ma non credo a un mondo che si fa prete…
…bellissima questa espressione.
… ma non facendosi prete, però si frega con le sue mani …
Francesco Samorè: Ricordo che le due grandi moratorie richieste negli ultimi anni riguardavano l’intelligenza artificiale (poche settimane fa) e, meno nota ma comunque rilevante su scala globale, quella su l’editing genetico. In questo secondo caso, relativo alla tecnologia Crispr CAS 9, una coalizione di scienziati prevalentemente occidentali si oppose agli utilizzi che avrebbero comportato la trasmissione delle modifiche genetiche alle generazioni successive.
Piero Bassetti: Se lei legge la biografia di Gesù di monsignor Gianfranco Ravasi – un bellissimo libro perché racconta la vita di Gesù non come i Vangeli, ma come risulta scientificamente dalla storiografia – traspare la consapevolezza che il “trucco” è tutto lì: se non è vera la resurrezione, non è vero il cristianesimo. La resurrezione, l’idea che la morte non è la fine, e che si possa “gestirla”. Quindi, con la sua domanda su chi gestirà l’oltre, su quando l’oltre sarà in grado di distruggere il non-oltre, lei mi chiede troppo (ride). Dio mio: è la grande sfida epocale. L’unica che mi farebbe venir voglia di campare a lungo, per vedere cosa succede (ride). Non vedo facilmente il mondo cristiano, che ormai è laico, soccombere rispetto al mondo non cristiano. Perché non è certo l’alternativa islamica che mi fa paura, semmai è quella cinese. Anche se ho l’impressione che, con tutto il vantaggio accumulato in questi 2000 anni di cristianesimo, ci vorrà un po’ prima di rimontarlo.
Una battuta, presidente, sul ruolo dell’impresa che fa filantropia, voi le avete nel Dna familiare quest’idea della responsabilità nel fare impresa. Molto prima che la incasellassero in un acronimo quello della Csr ossia corporate social responsibility.
Secondo me sta aumentando e, pur ponendo un problema di discernimento, come direbbe il Papa, è una dei possibili palliativi per prolungare il capitalismo, se insomma, il capitalismo si riscatta dalle sue tabe originarie. E son convinto da tempo che il vero colpevole sia Luca Paciolo, cioè che l’inventore della partita doppia.
E perché mai?
Perché se io metto un paio di mutande, una michetta, un brillante nella stessa voce contabile, devo sostituire al valore il prezzo. Perché, per confrontare le cose, bisogna sostituire all’idea del valore l’idea del prezzo – il capitalismo si regge su questo. Occorre invece ripristinare una gerarchia valoriale, come fanno giù alcuni. Secondo me una diversa idea del profitto potrebbe dare un contributo…
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Per green o socialwashing, qualcuno dice.
Non lo so. Ma se anche lo facessero solo per fama, sarebbe comunque un contributo.
Grazie, presidente.
Grazie a voi da parte mia, anche per il senso di servizio che rappresentate, perché ho l’impressione – e non esito a dirvelo – che la gente, con voi, dovrebbe farsi coraggio nel senso del dire: «Siamo forse l’unica via d’uscita».
Parole importanti, di cui la ringrazio.
Si parla tanto di Costituzione. In fondo, cos’era la Costituzione? Nel momento in cui si ricorre alla società per definire la politica, no? Voi di Vita che cosa fate? Ricorrete alla società per contribuire alla definizione della politica.
Foto di Tommaso Correale Santacroce per Fondazione Giannino Bassetti
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