Un Centro commerciale rinato su un terreno sequestrato alla mafia. Una storica società editoriale riemersa dai debiti e sopravvissuta al suicidio di uno dei suoi titolari. Uno dei big sul mercato della vetreria e della regalistica da matrimonio che ha saputo ripartire a un centimetro dal baratro. Dal 2008 ad oggi in Italia sono fallite 82mila imprese con una perdita di un milione di posti di lavoro. Secondo i dati Cerved, il picco di fallimenti si è registrato proprio l’anno scorso con oltre 15mila serrande abbassate. Ma c’è anche chi ha saputo attrezzarsi e resistere a questa valanga. E lo ha fatto in modo innovativo, rivoluzionando la governance di imprese che pur avendo modelli produttivi non più al passo coi tempi, avevano comunque il know how per continuare a competere sul mercato. Li chiamano workers buyout, ovvero dipendenti che acquistano l’azienda per cui lavorano (in gergo finanziario il buyout è un’operazione di investimento per cui un’azienda è acquisita da un gruppo di manager, che quindi diventano manager-imprenditori). I casi di questo genere in Italia hanno ormai raggiunto quota 69 coinvolgendo marchi di una certa notorietà come Ideal Standard o appunto la copisteria Zanardi alla cui vicenda anche il New York Times lo scorso aprile ha dedicato una corrispondenza dall’Italia.
Prime ore del mattino del 13 febbraio 2014. Giorgio Zanardi, 73 anni, viene trovato senza vita nella sede della Zanardi editoriale di via Venezuela a Padova. «Eravamo sommersi da una montagna di debiti», ricorda l’allora amministratore unico Mario Grillo. Fino al 2005 la Zanardi è stata una delle aziende leader nel segmento dell’editoria di pregio (con edizioni limitate anche da 2.500 euro a copia). L’azienda in pochi anni era passata da 300 a 110 dipendenti (la stragrande maggioranza dei quali in cassa integrazione) e proprio pochi giorni prima, il 9 gennaio, aveva presentato richiesta di concordato liquidatorio. Era la fine.
«Di fronte alla concorrenza dei libri elettronici e alla flessione del mercato delle guide, in particolare in Francia dove eravamo molto forti, non eravamo stati in grado di reagire», ricorda Grillo. Rimaneva, forse, una carta da giocare: quella della cooperativa di lavoro. Un passo che 24 dipendenti hanno scelto di compiere, investendo le loro mobilità e cassa integrazione, per un totale di 400mila euro. Al capitale sociale della nuova cooperativa hanno poi partecipato con un gettone da 250mila euro l’uno, Coopfond (il fondo mutualistico di Legacoop) e Cfi (Cooperazione finanza impresa) oltre alla finanziaria della Regione Veneto Sviluppo con una quota da 200mila euro. Capitale necessario, dopo il via libera del tribunale, all’affitto dei capannoni e all’acquisto dei macchinari. Grillo è riuscito anche ad accendere piccole linee di finanziamento con Unipol Banca e Banca Etica. Il primo bilancio di appena due mesi fa ha chiuso con un fatturato di 360mila euro (nel 2009 il fatturato ammontava a 15 milioni, scesi a 12 nei quattro anni successivi). «Abbiamo però ritrovato l’equilibrio di gestione e anche uno dei fratelli Zanardi si è riavvicinato a noi: in qualità di consulente ci sta dando una mano per riconquistare il mercato d’Oltralpe», spiega Grillo mostrando, sorridente, un rosso di appena 470 euro «frutto di un ritardo nella contabilizzazione di alcuni rimborsi spese». L’incontro fra Grillo e la Zanardi è recente. «Sono arrivato nel 2013 quando ormai la situazione era precipitata, dopo, fra l’altro un’esperienza di 26 anni in Electrolux». Insomma un manager di lungo corso. «Il meccanismo dei workers buyout può essere molto prezioso anche perché mette fine alla dicotomia fra proprietà e dipendenti rendendo così più forte la capacità di elaborare strategie condivise: tenete conto che i dipendenti oltre all’investimento della mobilità hanno rinunciato a tutti gli scatti di anzianità e oggi prendono solo lo stipendio base con riduzioni a seconda dei ruoli che oscillano fra il 10 e il 15%», conclude.
Una condizione, questa, sine qua non per avviare il processo. Come conferma Camillo De Berardinis, vicepresidente e amministratore delegato di Cfi: «Senza la partecipazione dei dipendenti, noi non ci muoviamo». Cfi è una società cooperativa per azioni partecipata dal ministero dello Sviluppo economico che ha come soci Coopfond, Fondosviluppo, Generalfond, Invitalia e oltre 270 cooperative. La sua missione è di salvaguardare e incrementare l’occupazione nelle cooperative. Insieme proprio a Coopfond (44 progetti, investimenti fra capitale sociale ed erogazioni per circa 13 milioni di euro fra il 2008 e il 2014) è la leva più forte su cui si fondano i workers buyout. Solo l’anno passato l’ente ha sostenuto 24 interventi e ne ha in previsione altri 50 nel prossimo biennio. «Delle circa 80 partecipazioni – che riguardano oltre 2500 addetti – che abbiamo attive in questo momento oltre l’80% sono costruite intorno al meccanismo dei workers», spiega De Berardinis, «e in futuro la porzione è destinata a crescere ancora». «Sono due le strade che possiamo percorrere», aggiunge, «la prima è quella della partecipazione al capitale d’impresa che però in nessun caso può varcare la soglia del 49,9% e durare più di dieci anni; la seconda è quella della concessione di finanziamenti con tassi variabili o fissi che variano fra il 3,2 e il 4,5%». Dalla sua creazione a oggi Cfi ha contribuito a creare o salvare il posto di 12.800 lavoratori, oltre 10mila grazie a programmi di Wbo quasi sempre in partnership con altri soggetti. «In questi casi», prosegue De Berardinis, «quando entriamo nel capitale esprimiamo un rappresentante fra i sindaci dell’azienda più che partecipare attivamente alla gestione finanziaria». Da questo punto di vista infatti il supporto arriva direttamente dalle centrali cooperative. Un lavoro generalmente ben fatto, almeno a giudicare dai dati. Passa la fase preistruttoria il 65/70% delle domande presentate a Cfi e viene approvato il 95% di quelle che poi vanno in consiglio. Mentre il tasso di mortalità delle aziende partecipate è del 13%. Anche se, secondo uno studio dell’università di Padova, la percentuale delle nuove aziende nate da una ristrutturazione gestita dai lavoratori è del 22%. Comunque decisamente inferiore al 35% delle start-up. Il sistema di supporto che un’azienda è in grado di calamitare intorno a sé è decisivo. Oltre ai fondi cooperativi quindi è spesso vitale il coinvolgimento degli istituti di credito. Come abbiamo visto sul fronte Wbo ci sono Unipol e Banca Etica.
Un ruolo importate lo stanno giocando anche le banche di credito cooperativo. È il caso per esempio del Credito Cooperativo Ravennate e Imolese, che ha sostenuto i lavoratori della Raviplast (la cooperativa di scatole e imballaggi nata sulle ceneri dell’ormai fallita Pramac) non solo con linee di credito ordinarie, ma anche con l’anticipazione dell’indennità di mobilità. «L’obiettivo che ci siamo posti è stato quello di sostenere una realtà del territorio per mantenere l’occupazione di 13 persone all’epoca in mobilità», interviene la responsabile relazioni esterne Tamara Pignato. Ma a quali condizioni una Banca investe in operazioni di Wbo? «Come per ogni azienda che richiede un supporto finanziario, è necessario che siano presentati progetti sostenibili, con caratteristiche tali da rendere efficiente la propria attività e soprattutto efficace rispetto alle opportunità economiche del mercato di riferimento».
Come per ogni azienda che richiede un supporto finanziario, è necessario che siano presentati progetti sostenibili, con caratteristiche tali da rendere efficiente la propria attività e soprattutto efficace rispetto alle opportunità economiche del mercato di riferimento
Tamara Pignato, Credito Cooperativo Ravennate e Imolese
Dalla Romagna alla provincia di Arezzo, il passo è breve e il modello simile. Simone Carresi è il presidente della cooperativa IVV, ovvero Industria Vetraria Valdarnese. «Siamo un’azienda storica nata nel 1952, con un fatturato di circa 14 milioni di euro di cui 5,5 dall’estero». Nel 2006 il primo bilancio in perdita dopo 20 anni. Il tracollo nel 2009. Da 160, i dipendenti quasi si dimezzano e incomincia la sequenza dei contratti di solidarietà (al 50/60% delle ore). Carresi, 44 anni, da direttore generale si incarica di guidare la ristrutturazione aziendale, varando un aumento di capitale che impegna ognuno dei 110 soci della cooperativa al versamento di 3mila euro. Oltre alla rinuncia dei benefici della contrattazione di secondo livello, quantificabile in una riduzione generalizzata di circa il 15% delle retribuzioni. Il ridimensionamento poi implica anche la vendita di asset e immobili per un valore di 3,6 milioni di euro. A maggio 2014 parte il nuovo corso. L’obiettivo per i prossimi 5 anni è quello di un fatturato di 4 milioni per annualità. «Un traguardo che contiamo di tagliare grazie anche al supporto del mondo cooperativo, insieme alla Coop e a Conad abbiamo infatti lanciato un programma loyalty promozionale basato sui bollini/spesa che per noi sta avendo un peso importante», spiega Carresi. Nel frattempo il 2014 ha chiuso con un utile di 200mila euro. «Un bel segnale». Il passo decisivo? «Senza la disponibilità dei soci-lavoratori oggi non saremmo qui»
È dello stesso avviso Gaetano Salpietro. Un’altra città: Palermo. Un altro settore: la grande distribuzione. Un’altra età: 66 anni. La stessa convinzione: «Il Wbo può essere uno strumento formidabile di riscatto sociale». Soprattutto se lavori a Mondello su un terreno confiscato alla mafia. Quella del Centro Olimpo (2mila metri quadrati, sette negozi più un bar, nel cuore di una delle zone più ricercate del capoluogo siciliano) è in effetti una storia paradigmatica. Il centro apparteneva al gruppo Aligroup (marchio Despar) «ma dal 2012», interviene Salpietro, «siamo entrati un una complessa vicenda anche giudiziale che ha visto il Centro passare di mano a un gruppo locale di Palermo, che però non ha mai perfezionato l’acquisto. Di fatto siamo entrati in un limbo e incominciavano a girare strane voci sul personale: in molti hanno incominciato a temere per davvero di perdere il posto». Era il punto di non ritorno. Da qui la decisione di costituire una cooperativa e di rilevare il ramo d’azienda. «Prima eravamo in cinque poi in sei alla fine ci siamo ritrovati in 34 su 47», confida Salpietro. Una sponda importate è stata anche la magistratura che ha concesso il via libera malgrado l’immobile fosse sotto sequestro e «ci ha permesso di partecipare all’asta per acquisire l’attività produttiva»: 500mila euro sono arrivati dalle indennità di mobilità degli ex dipendenti. Così a fine 2014 dopo quasi due anni di stop, il Centro ha riaperto al pubblico. L’obiettivo era di fatturare intorno ai 9/10 milioni contro il 13/14 della gestione Aligroup. «I primi segnali non sono incoraggianti in questo senso, ma dopo una pausa così lunga dobbiamo riconquistare la clientela», confessa Salpietro. Che aggiunge: «Guardate che qui in Sicilia, la nascita della nostra cooperativa è un segnale straordinario: abbiamo sfidato rendite di posizioni molto forti, resistenze sindacali e lo abbiamo fatto perché siamo stati in grado di creare un consenso visibile intorno a noi, a partire dal mondo cooperativo, ora certo abbiamo bisogno di un po’ di fortuna». Nell’attesa è arrivata la benedizione di Bergoglio. «Faccio il tifo per le coop nate attraverso il progetto di workers buyout», così papa Francesco lo scorso 28 febbraio ha accolto 7mila cooperatori riuniti in audizione in Vaticano.
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