Incastri imperfetti di combinazioni inaspettate – e per questo bellissime – le famiglie che abitano Bligny 42 sono la prova evidente che esiste una verità che non si ascolta. La semicirconferenza perfetta dell’arco d’ingresso lascia nascosta una parte di mondo a cui non si guarda. Costruita a fine 1800, la struttura, che si trova ai confini di una delle zone più ricche di Milano, agli occhi dei più è l’unica nota stonata in un contesto armonico, dove l’armonia la fanno i “ricchi”, “i regolari”, “i ragazzi borghesi”, e magari, quegli stessi ragazzi a Bligny 42 ci entrano per comprarsi la droga.
Quello di Bligny è un posto umanamente onesto; dove l’onestà è la conseguenza di una verità che non fa sconti; un posto che racconta da solo di un mondo che sta cambiando, di un concetto di famiglia che si sta trasformando, allargando. Qui le vite non sono ovvie e semplici; ma sono immediate, quindi vere. Poco onesto, invece, è lo sguardo di chi lo demonizza e lo circoscrive a “la casa dei migranti”, “il bronx milanese“, il luogo al centro di Milano dove “si spaccia la droga nel cortile”.
Bligny 42 non è un paradiso. E che qualcuno spacci la droga è vero, come è vero che le case sono piccole e la struttura vecchia, un po’ malandata. Alcuni dei 220 appartamenti che compongono lo stabile sono stati occupati illegalmente.
«Qui ci vivevano gli operai», racconta Francesca Buscaglia, fondatrice dell’associazione 3.2.1 che lavora all’interno del palazzo, e che abita in uno degli appartamenti dal 2009. «Nei primi anni sessanta le migrazioni dal Sud si sono intensificate, Bligny 42 è stata una casa per molti meridionali. Oggi ci vivono egiziani, peruviani, equadoregni, cinesi, ucraini, polacchi, moldavi, marocchini, tunisini, srilankesi… vecchi, bambini, artisti, italiani del sud… italiani del nord».
Insieme all’associazione 3.2.1, nel palazzo è presente anche un’altra associazione, “Bligny quarantadue”, fondata dagli stessi condomini, di cui Francesca fa parte. «Ognuno di noi ha un valore ag- giunto, è questo il presupposto da cui partiamo. “Nessun uomo è un’isola”, ha scritto John Donne, e qui te ne accorgi. Si crea un livello di convivenza spontanea, di prossimità vera con il vicinato».
Apis è uno dei condomini, vive in uno degli appartamenti con la moglie Luz, e due bambine Sofia e Karlin. «Sono arrivato da solo dall’Egitto 11 anni fa», racconta. «Il mio papà pensava che qua avrei avuto un futuro migliore. Ho fatto la solita traversata in mare. Non ho ancora il permesso di soggiorno, le mie bambine sono nate in Italia, ma sono considerate cittadine peruviane come mia moglie». Apis dice che in Italia si vi- ve meglio, ma ha voglia di rivedere la fa- miglia d’origine per far conoscere anche a loro quella nuova che si è creato. In casa la lingua che parlano di più è l’italiano «ci capiamo meglio», spiega, «poi lo spagnolo, e alla fine l’arabo; è più difficile». Quando lui e sua moglie Luz non posso- no tenere le bambine «stanno con Maria, la nostra vicina. È la loro zietta ucraina».
A Gaia avevano detto “non andare a vivere là”. Lei ha 25 anni, è nata a Como, ma da cinque anni vive a Milano, si sta laureando a Brera. «Cercavo casa e tutti mi avevano sconsigliato questo posto, ma io abito qua dallo scorso ottobre. Appena ci sono entrata, ho capito che era il posto giusto dove fermarsi. Una volta che ci si entra è così particolare e talmente caldo… Non ho mai conosciuto tanti vicini in vita mia nello stesso palazzo. Qua c’è più interazione, comunicazione, se hai bisogno di qualcosa sai a chi chiedere». Gaia si occupa anche di spazio Nour, una delle tre gallerie, insieme a quella di Emi Fontana e a Quintocortile, presenti nello stabile. Spazio Nour si trova a piano terra, un loft che dà direttamente sul cortile del palazzo. «Qua tutti gli appartamenti sono piccoli», spiega Gaia. «Quindi il cortile torna ad essere quello di un tempo: la piazza del palazzo dove ti incontri, ti scontri: diventa uno spazio vivo. Poi ovvio, non bisogna mentirsi, a volte diventa anche difficile convivere perché siamo tantissimi, però è interessante vedere come tutti cerchi- no, più che un mezzo, una via di mezzo per poter convivere tutti insieme. Questa è casa, e a casa vuoi starci bene».
La famiglia qui si allarga, esce dalle mura dell’appartamento e vive dentro le mura del palazzo. «Ho 40 anni, sono di Roma e mi sono trasferito qua due anni fa, per lavoro», racconta Michele, ingegnere informatico. «Mi piace l’umanità che c’è qua dentro. Io sono uno dei fondatori dell’associazione Bligny quarantadue, sorta nel 2013. L’associazione è nata perché questo posto era dipinto male; ha una brutta “nomina” e nessuno si è mai soffermato sulla potenza culturale del posto. Poi mi piace… passo le serate come se fossi in famiglia».
Dishani è nata 27 anni fa in Sri Lanka, ma Fandaj, suo figlio, è nato a Milano nove mesi fa. Sono cinque anni che vive in Italia, ha lavorato come badante, ha avuto il permesso di soggiorno. «Mio marito lavora qua come lavapiatti, quattro ore al giorno. Abitiamo a Bligny perché costa poco. Io non lavoro più, la signora ha detto che con il bimbo non posso lavora- re. Non ho soldi per una casa più bella, ma voglio stare in Italia, penso sempre di fare una sorellina o un fratellino per lui. Con Fandaj parlo sempre italiano così lo impara subito».
Nel cortile, nella “piazza”, capita spesso che ci si parli coi gesti o con qualcuno che fa da interprete. È il caso di Asem, in Italia da tre mesi, parla ancora solo l’arabo; è egiziana. Il marito invece vive in Italia da 15 anni. Hanno tre bambini di 12, 8 e 2 anni; a breve anche loro si trasferiranno definitivamente in Italia. «Loro mi piacciono che devono stare qui», dice Lierak. «Ma non posso continuare a vivere a Bligny, siamo tanti la casa è piccola. Le persone che ci stanno però sono brave. Tutte brave. Quando sono partito volevo fare una cosa, tante cose. Qualche cosa l’abbiamo fatta, ma quella più importante è che loro stanno con me. Non sono come la casa che vendi. Loro sono per tutta la vita».
Il collante dell’organizzazione di Bligny quarantadue sono i bambini, le seconde generazioni. «Quasi tutti sono nati qua», spiega Francesca. «In questo senso rappresentano una mediazione. Il cortile è il loro punto di aggregazione. Per loro, le organizzazioni propongono corsi e laboratori. Ricongiungersi con una famiglia, o ricrearne una qui è fondamentale. Ridà identità e forza all’individuo per ritornare ad essere attivo, dar- si un senso e darlo alla propria vita. Si deve necessariamente creare un tessuto sociale che in qualche modo faccia sentire le persone a casa e dia loro un’idea di famiglia».
In cortile Asam, di “tle anni” come dice lui, rincorre Josef di 5. Jode ha un papà egiziano e una mamma milanese, «papà Egitto perché parla arabo», dice. «Io sono nato qui, anche mia sorella, anche mio fratello. Io sono il più piccolo», poi precisa, «sono grande però, vado già all’asilo. Voglio una casa bella ma mi pia- ce restare qua».
Tommaso, 5 anni, ha la pelle bianco latte e i capelli gialli, sembra un tedesco ma è italianissimo. Non vive a Bligny 42, ma è un compagno di scuola di Marisa, così la chiamano all’asilo, italianissima anche lei, che ha però origini africane, Costa d’Avorio. La pelle nera e i capelli afro domati in treccine fitte fitte per tenerli a bada. Si ricorrono senza sosta «So- no molto amici», spiega Ludovica, la mamma di Tommaso mentre invano cerca di fermarli. Come si tengono insieme tante culture, religioni, così tante lingue; come coesistono modi di essere così diversi è la domanda ovvia, spontanea. Poi Mahmound Saleh Mohammadi, artista iraniano, 36 anni, che spazio Noir l’ha fondato, e a Bligny vive già da quattro anni, alla domanda ovvia, ha dato una risposta giusta «Perché non devono stare tutte queste cose insieme? È una cosa normale. È la bellezza di questo posto. È una parte di vita».
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