Famiglia

Il World Prematurity Day visto da casa mia

di Sara De Carli

Nel mondo 1 bambino su 10 nasce prematuro. Daniele è uno di loro. È difficile immaginare come sia un bambino tanto piccolo, i timori e le speranze che accompagnano un'avventura che inizia dentro l'incubatrice di una terapia intensiva neonatale. Ho provato a raccontarla, nel giorno del World Prematurity Day. Per far conoscere una realtà che di solito è invisibile. E per dire grazie a chi rende possibili tanti quotidiani miracoli

Giorgio voleva chiamarti «silviabianchi», come la sua amichetta dell’asilo, tutto attaccato e con il cognome di un altro. Filippo invece non aveva dubbi, come al solito: «lo chiamiamo marmotta», ripeteva. Papà aveva già scelto: o Carlo o Alberto, e forse alla fine avrebbe vinto lui (tranquillo, non avrei mai ceduto su Carloalberto!). Io però non ero convinta, e così fino al quinto mese sei stato semplicemente “il baby”. Il nome giusto è balenato all’improvviso, davanti alla scrivania di un medico dal sorriso timido ma rassicurante. Premendo il tasto dell’ascensore, usciti dal suo studio, dissi a mio marito: «Si chiama Daniele, perché sarà salvato dalla fossa dei leoni». Che si chiamasse Daniele pure quel dottore, il responsabile della terapia intensiva neonatale dell’ospedale Valduce di Como, è un caso. Ma se davvero sei uscito dalla fossa dei leoni, di certo lo dobbiamo anche a lui.

Il 23 aprile, all’ecografia del secondo trimestre, il ginecologo aveva detto che eri «piccolo». All’appuntamento ci ero andata da sola, e pure un po’ infastidita: al primo figlio, il battito del suo cuoricino ci aveva fatto venire le lacrime agli occhi, al terzo – adesso mi vergogno a dirlo – tutto ci sembrava un po’ scontato. «Che vuol dire piccolo?», avevo chiesto. «Significa che c’è qualcosa che non va?», incalzai. «Non lo sappiamo signora. Potrebbe essere soltanto piccolo, potrebbe esserci qualche problema con la placenta oppure potrebbe avere una sindrome genetica», aveva risposto. Per lavoro quasi ogni giorno ho a che fare con la disabilità. Ho visto il coraggio di tante famiglie, mi sono commossa davanti ai sorrisi e ai piccoli progressi di tanti bambini. Le ho incontrate e ammirate. Ho visto la loro gioia, che non ha nulla da invidiare alla mia. Nella testa perciò mi scorreva in loop un personale catalogo di sindromi, di cui non sapevo quasi nulla dal punto di vista medico e scientifico, ma a cui associavo il viso e il nome di un bimbo e la sua mamma che mi raccontava quanto amaro ci fosse nel loro pane quotidiano. Non mi stava crollando il mondo addosso, però allo stesso tempo avvertivo l’enorme distanza tra le vite degli altri e la mia. “Succede. Non sei la prima né l’ultima. Si può fare”, mi ripetevo. Però questa volta stava capitando a me, e ovviamente era tutta un’altra storia. Avevo paura. Eppure ti abbiamo desiderato, ti abbiamo cercato, ti abbiamo aspettato, sicuri che avresti portato gioia alla nostra casa. Forse per egoismo, per essere più felici ancora. Se eri soltanto piccolo o no, lo poteva dire solo l’amniocentesi. Ma dell’amniocentesi a quel punto vedevamo solo il rischio di perderti. Così ci siamo preparati a vivere i restanti quattro mesi accompagnati da un enorme punto interrogativo, in timore e tremore, ma cercando con le unghie e con i denti di strappare qualche giorno di confidente ottimismo. E ci siamo riusciti.

A casa, al lavoro, gli amici, tutti minimizzavano. “Crescerà”, dicevano. Tu invece non crescevi. O meglio, crescevi, ma lungo una curva che rallentava sempre. All’ecografia – prima ogni due settimane, poi ogni settimana, alla fine due volte alla settimana – ci andavo con il cuore in gola. Dopo si parlava sempre di misure, giocate sul filo dei grammi e dei millimetri. Che oltre alle misure, per quanto sottaciuto, ci fosse dell’«altro» – almeno come possibilità – non lo abbiamo nascosto mai, convinta come sono che portare a parola le cose sia il primo modo per dare forma al mondo. Qualcuno ha capito, qualcuno no. I tuoi fratelli di sicuro sì. Giorgio una mattina mi ha chiesto a bruciapelo: «Mamma, il baby è morto nella pancia?». Abbiamo cercato le parole per spiegargli che tu eri molto piccolo e che i dottori erano preoccupati, perché poteva essere che tu eri malato e che di sicuro, quando saresti nato, avresti dovuto stare per un po’ di tempo in ospedale, in una culla speciale, dove i dottori ti avrebbero curato. «Può anche morire?», aveva insistito Giorgio. «Purtroppo sì, anche i bambini muoiono». Sono stati bravissimi, li ho sentiti più di una volta rispiegare ad altri, cominciando dai nonni, quello che noi gli avevamo detto.

Decidere dell’amniocentesi non è stato un dilemma. Il vero dilemma è stato scegliere dove farti nascere. Era l’unica variabile nelle nostre mani e io sentivo fortissima la responsabilità di non poter sbagliare. Volevamo che fosse il posto più sicuro per te, dove tu potessi avere le migliori chances di farcela. Ma questo posto, qual era? Tanto sentito dire ma nessuna competenza per valutare oggettivamente ciò che ogni ospedale offriva: per me sono stati quelli i giorni più difficili. La soluzione è arrivata attraverso Annalisa, un’ostetrica del Valduce che si occupa anche del counseling, un servizio molto prezioso ma forse ancora poco pubblicizzato: «Provate a parlare con il dottor Merazzi, conoscere chi si prenderà cura del vostro bambino può aiutarvi a decidere». È dopo aver parlato con lui che sei stato “Daniele, salvato dalla fosse dei leoni”. Abbiamo deciso che restare all'Ospedale Valduce di Como, dove erano nati anche gli altri tuoi due fratelli, era la scelta giusta per noi. Ci siamo sentiti accolti e presi in carico, rincuorati dal tempo e dall’attenzione dedicati a noi genitori, alle nostre ansie e alle nostre domande, co-protagonisti di un percorso che riguardava nostro figlio e noi, insieme, di cui invece altrove ci eravamo sentiti solo passivi spettatori incidentali. A parità di mezzi, in situazioni come questa, sono le persone a fare la differenza.

Sei nato il 10 agosto. La sera prima dell’ultima ecografia, quella in cui poi hanno deciso di ricoverarmi, dal balcone della camera avevamo visto tutti e quattro una stella cadente. Mi sembrava di buon auspicio. In TIN in quei giorni c’erano molti bimbi, piccolissimi e molto prematuri. Tante situazioni delicate e un sacco di lavoro. A 35 settimane, con i tuoi 1300 grammi attesi, tu saresti stato un gigante. Della sala operatoria ricordo che ti ho sentito piangere. E dopo qualche istante ho visto spuntare Merazzi, anche se non era di turno. Mi ha fatto ciao con la mano e mi ha sorriso: «Tutto bene», ha detto. Forse non tutto, visto che ho scoperto dopo che ti stavano intubando. Ma per la prima volta dopo quattro mesi, il mio respiro è stato leggero.

Cento volte un parto naturale piuttosto che un cesareo, pensavo sdraiata nel letto, passando in rassegna tutte quelle “pazze” conoscenti che il cesareo invece l’avevano scelto. Nell’iPad di papà eri bellissimo e lui era contentissimo, ma imparerai presto che papà è un inguaribile ottimista. Io ti ho visto il giorno dopo, e solo lì, davanti all’incubatrice ho realizzato quanto fossi piccolo. Sei nato di 1200 grami esatti, ma eri già sceso a 980. Eri piccolissimo. E io ho pianto tanto. Avevi l’accesso venoso nel cordone per la nutrizione parenterale, la mascherina della C-pap, le bende sugli occhi per la fototerapia, il saturimetro. Fili spaventosi: non sapevo ancora che in realtà non erano “quasi” nulla. Lo avrei imparato poi, sbirciando sotto i lenzuolini che coprivano le incubatrici vicine, dove altri bimbi ancora più piccoli e più fragili di te combattevano la loro battaglia. Sbirciavo con pudore e con rispetto, accarezzando con lo sguardo quei piccoli corpi nudi, così piccoli che ogni battito del cuore sembrava una scossa che implorava una carezza. Tante volte invece gli allarmi dei macchinari che suonano come impazziti e l’affannarsi concitato di medici e infermiere intorno a un’incubatrice mi hanno costretto a tenere gli occhi bassi, aggrappati a te, pregando che anche l’altro piccolo ce la facesse. Sbirciavo anche gli occhi delle altre mamme, assetati come i miei di un sorriso rassicurante o anche solo di poter condividere con qualcuno le tante emozioni di quel piccolo mondo popolato da gente in càmice sterile. È un po’ come quando incontri un italiano mentre sei dall’altra parte del mondo: è più facile sentirsi simili, vicini. Noi ci riconoscevamo dai nomi stinti scritti sul braccialetto del parto, sbiaditi dalle tante docce, e dal fatto che dal lattario dell’ostetricia uscivamo con una boccetta in mano, non con un bambino. È doloroso e anche un po’ umiliante. D’altronde anche io per due volte ero passata da quelle stesse stanze ignorando cosa fosse e persino che ci fosse una terapia intensiva neonatale, concentrata solo sulla mia euforia. Questa volta invece, camminando per il lungo corridoio che porta dall’ostetricia alla TIN, mi sentivo una mamma di serie B. Poi suonavo il campanello, indossavo il camice verde, entravo da te e tutto passava.

Nel giro di quattro giorni già mangiavi i tuoi biberon di latte, in braccio a noi. Eri un microbo, ma le nostre mani hanno imparato presto a non avere paura di romperti. Le giornate non si misuravano in ore ma in grammi: quanto latte riuscivo a togliermi con il tiralatte, quanto succhiavi dei 20 ml che ti mettevano nel biberon ad ogni pasto, quanto aumentavi ogni giorno. Giorgio e Filippo ti hanno visto dopo una settimana. Emozionatissimi nei loro camici verdi, sono entrati uno per volta in TIN insieme a papà. Papà ti teneva in braccio, mentre attorno a te loro discettavano seri con la dottoressa Malorgio di tirannosauri, stegosauri e triceratopi. Io vi guardavo dal vetro, infinitamente riconoscente: portare due bambini di 3 e 5 anni dentro una terapia intensiva poteva anche essere un trauma, invece a loro è sembrato naturale. Giorgio l’ha anche disegnato sul cartellone che ci hanno chiesto per il World Prematurity Day. Accadono tanti piccoli miracoli, in una TIN, che chi non c’è passato nemmeno immagina. Non sempre le cose vanno per il verso giusto. Ma c’è un miracolo che ogni giorno si ripete dentro la TIN del Valduce: il far sentire noi genitori serenamente a casa.

Tanto a casa che quando poi arriva il momento di andare a casa davvero, ti senti impreparato. È un momento che avevo desiderato tanto, sognato, aspettato. Quando però finalmente mi hanno detto che quel momento era vicino, mi è sembrato quasi di averne paura. Perché niente era banale, nemmeno farti cacciare giù quei benedetti 20 ml di latte a pasto: o non ne volevi sapere o ti strozzavi, insomma con me non mangiavi niente mentre con le infermiere mangiavi sempre. Come avremmo fato a casa, solo io e te? Ci hanno avvisati qualche giorno prima, buttandoci lì un “se la sente di andare a casa?”. Ci siamo dati l’obiettivo di 1.700 grammi, saresti stato grande la metà dei tuoi fratelli all’istante della nascita. Mia mamma continuava a dire “Stai ancora qualche giorno, è così piccolo. E se gli altri due poi gli attaccano qualcosa?”. Io non ne volevo neanche sapere, alla fine avevi solo il saturimetro al piede, pesarti potevo pesarti pure io. Però è stato un sollievo quando il dottor Merazzi ci ha fatto la proposta di stare qualche giorno in pediatria: ci saremmo arrangiati io e te, però loro sarebbero stati lì, in caso di bisogno. «In Svezia i bambini prematuri stanno insieme alla mamma, nelle family room. Proviamoci», disse Merazzi. Siamo usciti insieme, io con Daniele e Simonetta con Filippo, un bambino con una storia simile alla nostra, i vicini di incubatrice con cui in quei giorni di TIN avevamo legato moltissimo. Pensavamo di fare una settimana di “tutoring”. Dopo soltanto due giorni invece abbiamo salutato tutti, con te che avevi anche imparato discretamente a ciucciare al seno. Lo abbiamo chiesto noi, eravamo pronti. Ero sicura di me, sicura di potermi prendere cura di te. Ma lo siamo stati solo perché qualcuno ci ha accompagnato, non ha sminuito le mie paure, ha curato le nostre fragilità e le ha fatte sbocciare. Grazie.

In foto, Daniele alla performance Teaching to walk alla mostra "La grande madre" a Palazzo Reale (foto Fondazione Trussardi)

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