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Dalla terra arida spuntano 90 ettari di aranceti: non è un miracolo ma poco ci manca, e di sicuro per 250 famiglie del sud dello Zimbabwe è la via d’uscita dalla povertà degli ultimi vent’anni. Stiamo parlando di un progetto modello di cooperazione internazionale realizzato dall’ong Cesvi che proprio per la sua efficacia ha rappresentato il case study a livello mondiale dell’Indice globale della fame 2016. Si chiama Shashe Citrus Orchard e ha rivoluzionato la quotidianità di 15 piccoli villaggi al confine con il Botswana, che si svegliano ogni giorno alle cinque del mattino, quando decine di persone — soprattutto donne, perché la gran parte di uomini, adulti e ragazzi, si recano per settimane nel più ricco e vicino Sudafrica a lavorare nei campi — percorrono fino a 20 chilo- metri a piedi (o, per le più fortunate, su un carretto trainato da un asino) per raggiungere gli aranceti (50 piante per ogni appezzamento). «La zona dello Shashe è quasi desertica, non esiste nemmeno una vera e propria stagione delle piogge», racconta Loris Palentini, 42 anni, capo missione del Cesvi in Zimbabwe dal 2014 e cooperante dal 2003. «C’era da investire molto per fare funziona- re il sistema di irrigazione costruito per ricavare l’acqua dal sottosuolo». Quello che mancava erano i fondi per realizzare il progetto.
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La raccolta delle arance
Con la cultura si mangia
In tali condizioni, in altre zone del Terzo mondo il baratro sarebbe stato inevitabile. In Zimbabwe,
però, la rinascita è partita da un luogo ben preciso: i banchi di scuola. «Il 95% della popolazione è alfabetizzato, e a partire dalla terza elementare si insegna agricoltura. Nel tempo le comunità dello Shashe si sono rese conto che potevano riscattarsi dalla povertà, unendosi e chiedendo aiuto», rimarca Palentini. Era il 2010: a Cesvi, già presente sul campo con al tri progetti di microcredito, arriva la richiesta di un gruppo di famiglie e del titolare di una fabbrica che processa le arance. «Aiutateci a ripristinare il settore agricolo del territorio, abbiamo le competenze ma ci serve la vostra esperienza».
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Un anno dopo l’Unione europea era già disposta a finanziare un piano quinquennale di sviluppo, a cui poi si è aggiunto il sostegno del Comune di Milano. «I fondi sono serviti a rimettere in funzione il sistema in modo sostenibile per le famiglie, che hanno recuperato il loro know how e si sono unite in cooperative agricole gestite da comi tati di cittadini — lavoratori degli aranceti e non — eletti ogni due anni», spiega il cooperante. Il mix vincente è stato il recupero degli schemi irrigui originari per ottenere l’acqua dal sottosuolo e l’introduzione di un sistema moderno di irrigazione basato su fulcri rotanti che spargono acqua in modo programmato e circolare per un raggio di 300 metri, evitando così sprechi.
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«Anche l’uso del terreno è massimizzato, perché laddove non ci sono ancora le condizioni per piantare aranci vengono coltivati altri ortaggi come cipolle, cavoli e legumi», sottolinea Palentini. Ogni famiglia gestisce direttamente il proprio raccolto: «Nella sede delle cooperative ognuno deposita e registra la produzione, che viene poi consegnata periodicamente alle ditte del territorio — tra cui le filiali locali della Schweppes — per la trasformazione. I guadagni vengono poi redistribuiti in base a quanto pro- dotto». Curare il più possibile il proprio appezzamento significa aumentare i guadagni. Una leva formidabile: «Il numero di famiglie che partecipano al progetto è sempre in aumento proprio perché è evidente il miglioramento delle condizioni di vita dei beneficiari». La maggior parte delle donne arriva ai campi tra le 6 e le 7 del mattino, spesso con i figli più piccoli che non vanno ancora a scuola, e lavora fino all’ora di pranzo, quando la morsa del caldo diventa eccessiva.
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Adesso la politica arraffa altrove
Le istituzioni, di certo, non sono partner attivi nel cambiamento in atto nello Shashe. Anzi. «Dilaga la corruzione, i membri del governo e dell’esercito si arricchiscono alle spalle dei più deboli, le cliniche sono senza farmaci. Quello che accade qui non è rappresentativo delle condizioni in cui versa il Paese, basti pensare che gran parte della popolazione rimpiange amaramente il colonialismo, quando perlomeno la sussistenza era garantita: fino alla metà degli anni 90, l’economia era florida e le arance erano un bene da esportazione», ragiona Palentini. Le terre sottratte dall’indipendenza del 1980 in poi ai latifondisti bianchi «sono state sfruttate fino all’osso senza lungimiranza e poi abbandonate, così come sono state tolte le concessioni minerarie ai privati senza però un successivo utilizzo».
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Così la percentuale di terra coltivata è molto bassa. Complice anche il ciclone El Niño dell’inizio di quest’anno, la produzione di mais è ferma a 600mila tonnellate all’anno, un terzo del fabbisogno nazionale fissato a 1.800 tonnellate. La persistenza al potere di Robert Mugabe — primo ministro dall’Indipendenza al 1987, e da allora presidente sempre più dittatore — 92enne abile a districarsi tra accuse di plateali violazioni di diritti umani tanto da essere ancora oggi incredibilmente in- vitato all’Assemblea generale delle Nazioni unite come membro permanente, è il segno più tangibile dell’impossibilità di riscatto sociale di tutto il Paese.
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Gli studenti
Il caso pilota del Shashe Citrus Orchard è comunque una luce fulgida anche per un altro elemento. «Insieme alle 250 famiglie, 900 studenti di due scuole della zona, dalle elementari alle superiori, sono impegnati quotidianamente negli aranceti:», specifica Palentini, «i ragazzi alternano la formazione teorica specifica sulle tecniche di agricoltura alla pratica sul campo». I guadagni delle vendite vengono investiti a vantaggio degli stessi studenti. In questo modo la scuola riesce ad autofinanziare la manutenzione degli edifici e ad attivare borse di studio per gli alunni più poveri. L’approccio di Cesvi, sia con le scuole che con le famiglie, è finalizzato alla loro futura indipendenza, in ottica di imprenditoria sociale: «staremo al loro fianco fino a quando avranno acquisito un’autonomia tale da essere in grado di reggere la concorrenza, senza bisogno di aiuti esterni». La strada è tracciata.
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L’aranceto dello Zimbabwe che cresce nel deserto
Testi a cura di Daniele Biella
Foto gentilmente concesse da Cesvi